ne cuore dell equadorE Jahve Elohim piantò un giardino in Eden, a oriente,
e vi pose l’uomo che aveva formato

Eastward lay a plain of solid jungle, broken only by gigantic black, yellow and white coiling rivers, and sun-glazed yellow swamps, stretching out over the horizon 2,600 miles to the Atlantic Ocean. Only a thin blue mist rose out of that continental basin of bush… Somehow through this terrible place we must make our way.

Prima di partire per l’Ecuador, la potente descrizione di Leonard Clark costituiva l’immagine inquietante della grande foresta pluviale amazzonica che custodivo nascosta in un angolo del mio cervello da quando, poco più che quindicenne, mi immersi negli intricati abissi verdi dei distretti peruviani di Loreto e Madre de Dios, guidato dalle memorabili pagine del suo racconto “The Rivers ran East”, “I fiumi scendevano a Oriente”. Nonostante le coloriture letterarie del resoconto di Clark, la grande foresta amazzonica costituiva nel 1946 la più grande estensione incontaminata ed in gran parte inesplorata del pianeta. Un luogo affascinante e nello stesso tempo mostruoso. Affascinante come lo sono le origini. Un luogo dove la legge biologica fondamentale regola ancora apertamente le vite che racchiude, dove la bellezza mozzafiato si unisce alla lotta più spietata per l’esistenza.

Ogni discesa nel profondo è inquietante: l’immersione nei fondali marini, l’esplorazione del pozzo del passato dell’individuo e della specie, l’analisi degli strati nascosti della psiche. Un viaggio nella foresta amazzonica è anche un viaggio nel tempo, verso le nostre origini, l’uomo allo stato di natura, l’Eden originario.

E così parto per l’Ecuador con un bagaglio di inquietudine e di curiosità del peso di circa 13 Kg, ovvero almeno 3 Kg in meno rispetto al viaggio, meno complesso, dell’anno precedente sulle Ande peruviane. Più aumenta l’esperienza di viaggio, più diminuisce il peso del bagaglio: il segreto è portare tutte e sole le cose necessarie, si dice. Ma che cosa è “necessario”? Per un indio della foresta, il necessario pesa al massimo 5 Kg, e consiste in gran parte degli strumenti richiesti per procurarsi… il necessario, appunto. La mia abitudine di non raccogliere informazioni sul viaggio prima della partenza in effetti non aiuta, come non è di grande supporto il fatto, di cui non ho tardato a rendermi conto, che sia apparentemente impossibile imbattersi in un Decathlon qualsiasi nella foresta pluviale e, per quanto possa sembrare strano, persino Giacomelli Sport è misteriosamente assente. Il risultato di questa deprecabile concatenazione di cause ed effetti non poteva che essere uno: mi sono accorto di non avere alcune cose assolutamente “necessarie” quando era ormai troppo tardi. Ma, dato che l’ottimismo è la prima virtù del buon viaggiatore, l’ho presa con una misurata dose di filosofia. Di filosofia stoica, nello specifico.
Pillole di viaggio.

Lungo lo Shiripuno
La navigazione procede con cautela, soprattutto lungo i tratti più stretti e bassi del fiume, ingombrato da tronchi e rami sommersi che potrebbero danneggiare il motore della barca. Il motorista deve stare costantemente all’erta per riuscire ad individuare da segni impercettibili la presenza di un tronco sommerso e sollevare all’ultimo momento l’elica del motore dall’acqua ed evitare il peggio. La nostra guida, l’ex sergente dell’esercito Luis, è ben piantata sulla prua, per individuare potenziali pericoli e scostare tronchi o altri ostacoli. Il nostro viaggio prevede almeno due settimane di navigazione in regioni totalmente prive delle strutture di soccorso più elementari: rimanere senza motore potrebbe significare molte settimane di navigazione a remi prima di raggiungere una colonia o un porto “civile”. Quanto alla marcia nella foresta, è meglio dimenticarsela: si coprono pochissimi chilometri al giorno e i sentieri, anche quando esistono, sono talmente tenui che solo un’esperta guida indigena riesce a distinguerli dal normale sottobosco. Mi raccontava Domingo, el cocinero tuttofare della spedizione, di quella volta in cui, con un gruppo di gringos come noi, si era perso nel tratto di giungla che avremmo dovuto attraversare fra poco. Si tratta di pochi chilometri che separano la valle del Rio Cononaco dalla valle del Rio Nashino. In un altro posto, sarebbe considerato un semplice trekking di qualche giorno, una scampagnata fuori porta. E’ bastato l’abbandono improvviso della guida locale (forse indispettita dal compenso giudicato basso, forse stanca di dover aspettare questi strani personaggi così goffi nella giungla, forse ancora semplicemente assalita dalla voglia di tornare a casa: non si può dire, è difficile penetrare nella mentalità di queste popolazioni, catapultate nel XXI secolo dall’età della pietra in pochi decenni) per sfiorare il dramma. Hanno rapidamente perso il sentiero, vagando per giorni nell’intrico verde, esaurendo ben presto i viveri e riducendosi, poco prima di ritrovare la strada, a pescare piranha con mezzi di fortuna. Quella volta andò bene, ci lascia capire Domingo. E a noi ricorda che, quaggiù, pochi giorni separano una piacevole gita in barca dalla morte per fame. Può sembrare incredibile a chi non conosce la giungla, ma queste immense distese verdi e pullulanti di vita sono terre di fame: è estremamente difficile procurarsi il cibo autonomamente se non si conoscono alla perfezione le tecniche di caccia e raccolta degli indios e senza gli strumenti adeguati. Inoltre, muoversi nella giungla senza una barca a motore è estremamente faticoso.

Ma i tronchi sommersi non sono l’unico pericolo che si corre durante la navigazione. Altre due formidabili disgrazie sono rappresentate dalle liane pendenti e dai formichieri che attraversano il fiume. Prevedo la vostra domanda, ma lasciatemi andare con ordine. Le liane sono un pericolo abbastanza evidente, nel senso che penzolano spudoratamente dall’alto della volta vegetale con la più perfetta faccia tosta. Una scena classica a cui assisterete senza dubbio, e che provocherà l’ilarità a stento soffocata di tutta la barca (quasi tutta, per l’esattezza) è la seguente: si parla del più e del meno e ci si gode il sole tropicale quando la liana intrisa d’acqua e di fango attraversa la barca per il lungo, provocando la subitanea apertura a cerniera dell’equipaggio, chi a destra chi a sinistra. Tu ovviamente non vedi la liana arrivare se non all’ultimo momento, perché sei coperto dal compagno di fronte che si sposta all’improvviso. Ti pieghi di colpo, schivi e, mentre ti congratuli con te stesso per la prontezza di riflessi dimostrata, senti il classico tonfo sordo di una liana fangosa contro una macchina fotografica, e quindi contro un cranio umano: c’è sempre qualcuno che, in fondo alla barca, stava dormendo o guardava uno sciame di farfalle… Come del resto c’è sempre qualcuno che, sulla prua, invece di guardare avanti si volta indietro per conversare amabilmente con il resto della ciurma, la quale, distratta dalla conversazione (ma i più maligni affermano che non è questione di distrazione), ovviamente non ha il tempo di avvisare il malcapitato di quel ramo, intriso di formiche rosse, che sta per spazzare la barca ad altezza d’uomo. Il tema delle formiche rosse è alquanto interessante, o almeno così mi pare ora che sono tranquillamente seduto alla mia scrivania, ma sul momento non avevo colto il lato affascinante della faccenda. Ad esempio quella volta che, lungo la riva del Napo, mi stavo rilassando passeggiando beatamente a piedi nudi nel prato antistante una capanna indigena. Mi stavo domandando se fosse il caso di fare un bel bagno nel fiume, come i due ragazzini equatoriani dell’equipaggio, che si divertivano un mondo a saltare da un terrapieno di qualche metro nella corrente fangosa del Rio Napo. Non ci crederete, ma mettere il piede in un nido di formiche rosse costituisce un potente stimolo all’arte natatoria. Credo di aver stupito l’intero equipaggio con il mio perfetto tuffo carpiato nel Napo con tutti i vestiti addosso. Ma torniamo alla vostra domanda iniziale. In effetti, devo convenire con voi, un formichiere che attraversa il fiume non costituisce di per sé un grosso pericolo, anzi è assai buffo vederlo nuotare con la testa eretta e le zampe davanti che battono l’acqua in modo regolare, con un rumore ritmico che ricorda le pale di un pedalò della riviera romagnola. La parte pericolosa si ottiene soltanto dall’interazione con l’inesauribile inventiva dell’essere umano, ad esempio quando qualcuno partorisce l’insana idea di afferrarlo per la collottola e tirarlo di peso sulla barca. Se qualcuno manifestasse tale deplorevole intenzione, gioverebbe ricordargli che il formichiere, per il mestiere che svolge, è dotato di lunghissimi e affilatissimi artigli sulle zampe anteriori e che, se afferrato per la collottola da un bipede implume su una barca, di solito reagisce cercando di aggrapparsi al braccio che lo solleva. E voi avete capito tutto. Lo ha capito anche Luis, che da allora ha sempre manifestato un assoluto rispetto per i formichieri che attraversano i fiumi.

Marcia nella giungla, dal rio Cononaco al rio Nashino
Eccoci pronti per qualche giorno di marcia attraverso la giungla amazzonica, che ci porterà dal rio Cononaco, presso le cui rive siamo accampati, al rio Nashino dove ci aspetterà la nostra barca. Reclutiamo tre portatori/guide indigene presso la vicina comunità di Sandoval. Insieme alla nostra guida Huaorani ufficiale, Pata, e al capo spedizione Luis, siamo al completo. I nostri portatori sono indios Huaorani di piccola statura, ma agili e dai muscoli guizzanti. Parlano una lingua incomprensibile, e si vede che la il mondo esterno li ha raggiunti da poco, spennellando una sottile patina di “civiltà” su una solida massa primitiva. Portano stivali di gomma per marciare nella melma della giungla, ma ben presto se ne liberano per continuare, molto più confortevolmente, a piedi nudi. Dormono all’aperto, avvolgendosi in larghe foglie e stringendosi insieme se piove.
La marcia nella giungla non è lineare, bisogna continuamente evitare rami, tronchi e radici, guadare torrenti, evitare pantani, e cercare di non perdere il contatto con le nostre guide. Per attraversare i corsi d’acqua più larghi, gli indios hanno tagliato enormi alberi e sospeso i tronchi da una riva all’altra. Sebbene per loro sia estremamente semplice utilizzare questi ponti vegetali, per chi non è abituato e porta stivali o scarponcini bagnati, attraversare il fiume tenendosi in equilibrio su un tronco umido e scivoloso non è un’impresa banale.
E piove. Piove in continuazione dal primo giorno di marcia. Un diluvio tropicale che trasforma i sentieri della giungla in torrenti e il suolo in pantano. Si avanza con l’acqua al ginocchio, e in alcuni casi si sprofonda fino al mento. Portare impermeabili o stivali non serve: meglio liberarsi il più possibile del vestiario, per non avere troppo tessuto bagnato addosso. Per fortuna verso sera, quando ci accampiamo presso alcune capanne abbandonate, la pioggia si arresta ed esce il sole. Tutto è umido ed esala vapore. Mi libero dei vestiti sudati e bagnati e li appendo provvisoriamente ad un palo di legno, per scendere ad un piccolo torrentello a lavarmi. L’acqua è pulita e fresca, ed è un vero sollievo dopo una marcia così disagevole. Al mio ritorno trovo i vestiti brulicanti di insetti, attirati dal sudore di cui sono impregnati. Li metto accanto al fuoco, e ne ottengo la liberazione immediata, impregnandoli però di un odore di salmone affumicato che persisterà per tutto il viaggio.
Il giorno successivo giungiamo presso una minuscola comunità Huaorani, due capanne abitate da un unico nucleo familiare. Si tratta di persone anziane che non hanno voluto raggiungere la comunità di Sandoval lungo il fiume e preferiscono vivere appartati nella foresta. L’uomo torna dalla caccia e porta un fucile arrugginito. Ha i capelli lunghi e irti, la barba a punta e le orecchie con due enormi fori, come usava nei tempi passati. La donna è nella capanna, seduta su un’amaca a rimestare in un paiolo una sorta di poltiglia biancastra, leggermente alcolica, ottenuta dalla fermentare vegetale aiutata dalla masticazione. Tengono alcuni animali semi-domestici, fra cui una scimmia dalla lunga coda prensile (un tipico animale da compagnia da queste parti) e qualche pappagallo. È un incontro emozionante, ma a me non manca di ispirare una sottile malinconia, come tutto ciò che è destinato a scomparire.
Dopo altri due giorni di marcia giungiamo finalmente ad un fiume sulla cui riva opposta si apre una radura con alcune capanne. Subito veniamo individuati dai bambini del luogo, che si affollano curiosi sulla riva lontana. Il fiume è piuttosto largo, e non ci sono tronchi sospesi o barche. Uno dei portatori afferra una grossa accetta e abbatte prontamente un albero sulla riva, ma la soluzione non ci soddisfa. Il più giovane degli indios si tuffa allora nell’acqua fangosa, attraversa il fiume a nuoto e riporta una barca dalla riva opposta. Adesso possiamo passare.
Il “villaggio” si sviluppa intorno ad uno spiazzo di cemento, con un capanno in legno utilizzato come rimessa o riparo dai dipendenti dell’azienda petrolifera che sfrutta questa regione. Vicino passa una strada sterrata. Siamo tornati nella “civiltà”: ci attende finalmente una notte all’asciutto.

Terra.
La corriera sudamericana piena di bambini valica arrancando il passo che separa, ad oltre 3500 metri di quota, l’altopiano di Quito dal bacino amazzonico e si tuffa nell’abisso verde, molle, velato da vapori azzurrini, sempre più nel profondo insieme ai fili d’argento delle cascate andine, che raccolgono le acque della cordigliera per convogliarle nel gigantesco bacino amazzonico (nomi leggendari: Tambo, Ucayali, Napo, Urubamba). Subito l’acqua appare l’elemento dominante di questo mondo primigenio, sotto forma di cascate scintillanti, di nebbie perenni, di piogge abbondanti e quotidiane, di fiumi bianchi di schiuma sulle rapide oppure mollemente adagiati nella pianura, gialli e marroni. La terra, ocra o marrone, è intrisa d’acqua.

Lagune labirintiche di acque nere punteggiano il bacino amazzonico: potresti navigarci per giorni con una piccola canoa a remi, esplorando ogni anfratto verde, ogni corridoio fra pareti di palme spinose, ogni arcipelago di isole di vegetazione galleggiante. La superficie dell’acqua è talmente liscia da creare una sorta di enorme specchio che duplica il bordo verde della laguna ed il cielo azzurro.
E allora ferma la barca al centro della distesa d’acqua nera, attendi che la superficie si sia ricomposta in uno specchio perfettamente piano, osserva il cielo liquido su cui galleggia pigramente la barca – nulla si muove, solo qualche nuvola in viaggio, laggiù… – e poi tuffati nelle acque fresche e scure.

Una notte di luna piena,
il cielo pulito,
il cerchio perfetto della luna
brina d’argento la massa nera della foresta.
Salpiamo
con una piccola barca sull’acqua scura
divisa da una candida lama di luce.
Si alza un soffio di vento leggero,
le voci della giungla arrivano soffocate dalle rive lontane.
Una serenità senza tempo piove nel cuore, come luce lunare.
Una notte fatta di ere geologiche.
Nel folto della vegetazione fantastica,
un enorme anfibio del Carbonifero
gorgheggia il suo richiamo d’amore
che nessun uomo ha mai udito.

Enormi fiumi gialli si aprono una strada contorcendosi attraverso la giungla. Le rive sono mura di fango erose dalla corrente, anche se a volte si avventurano verso il centro del fiume in piccole spiagge (playas) di sabbia grigia. Ma non esistono solo gli enormi fiumi navigabili, come il Napo, larghi anche qualche chilometro. L’intero bacino amazzonico è coperto da una rete di fiumi, torrenti, canali, fili d’acqua sempre più minuti, come arterie e capillari di uno smisurato essere vivente. Durante una tipica giornata di marcia nella giungla, lontano dai grandi fiumi, si attraversano normalmente una decina di torrentelli su appositi tronchi tagliati dalle tribù del luogo, e innumerevoli canali. La giungla ha un ventre molle, costituito da fango e foglie morte, perennemente intriso d’acqua. Le piogge, abbondanti e quotidiane, gonfiano i fiumi e le lagune e trasformano i sentieri dell’interno in torrenti fangosi.

Vita.
Il mondo vegetale è naturalmente l’aspetto più appariscente del bacino amazzonico, e non manca di stupire il viaggiatore che per la prima volta si inoltra nella giungla. Discendendo in barca lungo i fiumi, si passano intere giornate di navigazione tra due spesse muraglie verdi impenetrabili, di altezza media direi fra i 20 e i 30 metri, da cui svettano a volte giganti solitari a 40 o 50 metri dal suolo. Piante che crescono su piante, rampicanti avvolti come enormi serpenti vegetali sui tronchi scuri, oppure cespi verdi dagli enormi fiori rossi, adagiati fra i rami che si protendono sul fiume, con le lunghissime radici filiformi penzolanti, come lenze gettate nell’acqua da invisibili pescatori.

Una passeggiata nella giungla con una guida indigena è quello che ci vuole per familiarizzare con l’incredibile ricchezza vegetale amazzonica, e con le tecniche tradizionali tramandate di generazione in generazione dagli indios per sfruttare questo tesoro verde. Il curaro, ad esempio, si ricava dalla corteccia di una liana. Ha un sapore amaro e può addormentare temporaneamente la bocca se assaggiato in piccolissime dosi. Viene utilizzato per intingervi le punte delle frecce usate nelle lunghissime (anche 3 metri) cerbottane degli indios. Le frecce, piccoli dardi acuminati a cui viene arrotolato del cotone ad un’estremità in modo da formare una pallina che aderisca alle pareti interne della cerbottana e possa quindi essere spinta dalla pressione dell’aria soffiata ad una estremità, si portano in un astuccio di pelle di scimmia, il curaro in un recipiente ricavato da un vegetale a forma di zucca. L’animale colpito (pappagalli, scimmie,…) viene ben presto irrigidito dal veleno e cade poco distante. Esistono poi piante curative per qualsiasi tipo di malattia o ferita, inclusi i morsi dei serpenti. Poi ci sono piante curiose, come la pianta che alberga all’interno dei suoi verdi rami colonie di minuscole formiche che, se ci ficchi dentro la punta della lingua (come la vostra guida vi inviterà immancabilmente a fare), hanno un vago gusto di limone. Infine, da alcune piante si ricavano tinture ornamentali per tessuti o per dipingersi il corpo.

Chiariamo subito: la giungla brulica di animali di ogni genere, ma voi non li vedrete facilmente. Una volta Luis mi ha indicato un pappagallo. Ci ho messo non meno di cinque minuti e innumerevoli smorfie di Luis per localizzarlo: era esattamente a non più di tre metri dal mio naso, perfettamente immobile e perfettamente verde, come tutto il resto. Inoltre gli animali selvaggi, abituati a vivere in un ambiente dominato dalla lotta per l’esistenza, cercano di evitare il più possibile ogni scontro diretto con animali di dimensioni paragonabili o superiori, perché potrebbero avere la peggio o uscirne comunque feriti. E una ferita, in questo ambiente, può portare rapidamente alla morte. Voi sarete alcuni degli animali più grossi in circolazione, se si eccettuano certe specie di serpenti e di pesci. Quindi, gli animali tenderanno ad evitarvi, e potreste avere problemi solo se inavvertitamente andate a disturbare qualche abitante della foresta, il quale potrebbe interpretare il vostro gesto come un attacco. Toglietevi dalla testa giaguari mangiatori di carne umana e piranha che spolpano in pochi secondi qualunque essere vivente caschi nel fiume. Ho fatto regolarmente il bagno in tutti i fiumi e le lagune amazzoniche, anche dove si pescano piranha lunghi due palmi. Alcuni dei principali pericoli vengono dagli esseri meno evoluti, insetti, ragni, serpenti, pesci, che potrebbero avere comportamenti riflessi e dunque poco logici e prevedibili.

Tuttavia, dopo un adeguato periodo di acclimatamento, riuscirete senza dubbio a vedere un numero considerevole di specie di insetti, fra cui tarantole grandi come una mano, millepiedi lunghi un piede ed enormi farfalle larghe una spanna, le bellissime morpho blu-elettrico.
Potreste anche assistere a spettacoli collettivi di sicuro effetto. Ad esempio, le incredibili autostrade di formiche tagliafoglie, che rigano il suolo trasportando milioni di foglie fatte a pezzi dagli alberi al formicaio, dove le utilizzano per concimare coltivazioni di funghi sotterranee. Lo spettacolo di una tale organizzazione senza intelligenza (a quanto ne sappiamo) lascia stupefatti. Vedrete poi sicuramente sciami multicolori di farfalle, che da lontano paiono mulinelli di coriandoli trasportati dal vento, e se siete fortunati potrete assistere allo spettacolo inquietante di “tempeste” di falene notturne che, fitte come fiocchi di neve in una tormenta, verranno a morire all’alba presso il vostro accampamento, lasciando uno strato scricchiolante di cadaveri sotto i vostri piedi.

Fra gi animali più evoluti, osserverete probabilmente innumerevoli tartarughe grigio-blu prendere il sole attaccate a grappoli sulle radici che escono dal fiume, qualche piccolo caimano (di notte, se puntate una torcia elettrica verso le rive, potrete “accendere” numerosi punti arancione: occhi di caimano), scimmie e bradipi sugli alberi, qualche formichiere o tapiro che scivola veloce nel folto al passaggio della barca. Nei fiumi abitano piranha e razze con pungiglioni avvelenati sulla coda (occorre fare attenzione quando si cammina a piedi nudi nel fango presso la riva, perché questo tipo di razza si adagia sul fondo melmoso e potrebbe pungervi), oltre a innumerevoli specie di pesci. Se osservate attentamente, potreste scorgere anche la pinna dorsale di qualche delfino di acqua dolce che si immerge velocemente davanti alla vostra barca.

Uomo.
Solo una cinquantina di anni fa, la colonizzazione dei vasti bassopiani amazzonici poteva sembrare un’impresa senza speranza. Leonard Clark riporta l’opinione a riguardo di uno dei pochissimi coloni inglesi dell’epoca, installato in un avamposto ai margini di vaste estensioni di foresta sconosciuta.
Monstrous brown moths with yellow cat’s eyes speckling their dusty wings, black flying beetles with green eyes, flying ants in red suits and silvery wings, three-inch apple-green praying mantis – all in a suicidal frenzy pinged and swooshed against the lamp on the table. … “That’s what would happen to your colonists,” once remarked Stone, pointing with his pipe stem at the dead bugs scattered under the light. “The bally bush gets them all. It will reach out and get me in this house.”

Le cose da allora sono cambiate drasticamente. La tecnologia e l’avidità dell’uomo hanno avuto il sopravvento sulle difese della foresta. Sebbene una spedizione nella giungla non sia tutt’oggi una passeggiata, ormai è quasi impossibile imbattersi in tribù indigene “non contattate”, cioè che non abbiano mai avuto contatti con la civiltà occidentale. Esploratori, studiosi, garimpeiros, agricoltori, allevatori, società petrolifere e ultimamente turisti hanno avuto la meglio. Sebbene possa sembrare il contrario, i rapporti di forza sono drasticamente a svantaggio delle popolazioni indigene. Un indio può apparire immensamente superiore a un turista occidentale se considerato nel suo contesto: è mediamente più allenato, conosce la foresta, è in grado di sopravvivere dove un uomo bianco morirebbe di fame nel giro di qualche settimana. Ma questa superiorità è solo apparente. In realtà, il turista più sprovveduto è portatore di una cultura incomparabilmente più forte, più organizzata, più determinata e più aggressiva di quella degli indios della foresta. Quando questi due mondi si incontrano, per quanto ci si possa sforzare di rispettare la controparte e di non influenzarla, è inevitabile che una delle due parti soccomba: troppo grande è la disparità di forza. Prendete una comunità come Sandoval, piccolo villaggio lungo il Cononaco. Sono bastati pochi anni di frequentazione (assai sporadica, per altro: forse un paio di spedizioni all’anno) di turisti e commercianti locali per introdurre oggetti (barche a motore, magliette prefabbricate, orologi,…), mode (feste con musica occidentale, partite di calcio,…) e aspirazioni (guadagno, religione, case di legno con tetto in lamiera,…) del tutto estranee alla cultura indigena. Le giovani generazioni non potranno che finire di tagliare il legame che li unisce alla tradizione per abbracciare una cultura esogena, elaborata da altri per fini che non li riguardano. Per questo si sta facendo strada l’idea che, se si desidera preservare intatte le tradizioni indigene (se mai questo sia ancora possibile…), sia necessario non solo fare estrema attenzione nel relazionarsi con le tribù primitive, ma addirittura evitare del tutto il contatto.

Io per parte mia sono molto pessimista. Credo che ormai abbiamo definitivamente distrutto gli ultimi esempi di uomo allo stato di natura, e forse abbiamo compromesso per sempre la possibilità di comprendere le nostre origini, l’Eden primigenio e il nostro comune antenato Adamo, la cui tomba, si dice, è posta sotto un enorme roccia a Lalibela, in Etiopia, a beneficio dei turisti europei che affollano schiamazzando le chiese rupestri del posto.
Diego Ragazzi
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