VANGELO

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

RIFLESSIONE

25 febbraio 2018

GRAMMI DI ATTIMI
2a domenica di Quaresima B

In questi giorni le cronache dei giornali hanno riportato il glorioso successo del bergamasco Simone Moro che, con Tamara Lunger, ha raggiunto la vetta del Pik Pobeda,a 3003 metri.
È la montagna più alta della Siberia nel Circolo Polare Artico e pare il punto più freddo della terra.
In una sua dichiarazione Moro ha detto: “Se fai uno zaino che pesa un chilo in più, non è un chilo e basta, ma è un chilo a ogni passo.
Per scalare una vetta ci vogliono diecimila passi.
Vuol dire che fai dieci tonnellate di lavoro muscolare in più.
Spostare dieci tonnellate o non spostarle, mi sa che la differenza la fa. Quindi ogni grammo conta”.
Oggi Gesù porta su un monte i suoi amici più stretti: una fatica per la salita, una luce scoperta, il ritorno a valle.
Sono le tre dinamiche della vita, della fede e dell’amore.
Le fatiche e le salite ci sono e in abbondanza.
Abbiamo bisogno di una luce che ci aiuti ogni giorno a tornare a valle, sulle strade del quotidiano piene di trappole.
Quante volte i nostri passi sono stanchi, persi nella nebbia.
Abbiamo bisogno di “venire alla luce”.
Proprio come un bambino nel buio dell’utero lotta e soffre, scalcia e spinge per “venire alla luce” e cominciare a respirare.
Interessante che Dio dica: “ecco mio Figlio, l’amato”.
“Dare un figlio” è in assoluto il più grande gesto d’amore.
Un uomo e una donna nel “dare al mondo un figlio” toccano il punto della terra più vicino al cielo, in quanto partecipano della stessa potenza di Dio creatore:
danno la vita, impedendo al mondo di spegnersi nel buio.
È bello che si dica anche “dare alla luce un figlio”:
non è dare la luce al figlio, ma dare il figlio alla luce.
Nell’istante in cui dona al mondo la scintilla di un nuovo futuro e la possibilità di una nuova speranza, la coppia vive dentro di sé un’esperienza talmente forte d’amore
che trasfigura: illumina il volto, riempie il cuore, cambia la vita.
Basta guardare un papà o una mamma davanti ad un neonato.
Ma nel momento di dare un figlio, alla Luce e al mondo, si fondono il vagito del bambino e il travaglio della mamma, si fondono lacrime e sorrisi, gioie e preoccupazioni,
proprio come nel trasfigurarsi del Figlio di Dio nel Vangelo: luce e nube, fede e dubbi, parola e silenzio, Tabor e Calvario, Mosé e Elia, croce e resurrezione.
Abbiamo bisogno di “venire alla luce”.
Se però clicchi su un interruttore e la lampadina non si accende dici “non c’è la luce” e deduci che manca la corrente elettrica.
C’è una interruzione che non permette all’energia di raggiungerti.
La luce c’è, l’energia c’è, il blocco (o il guasto) è nell’impianto.
L’uomo ingegnoso ha inventato le batterie per supplire a questo, ma anche queste se le usi e non le ricarichi, si consumano e tu resti al buio. Tutto ovvio, scontato. Lo sappiamo bene.
Perché allora non riusciamo a fare un passaggio logico semplice rispetto alla nostra vita e alla nostra interiorità?
Se c’è buio dentro di noi, se non c’è nessuna luce, non potrebbe essere che siamo noi che non siamo più collegati?
non potrebbe essere che siamo noi che non ci siamo ricaricati?
Ci usiamo in continuazione e non ci ricarichiamo mai.
Abbiamo l’ansia di trovare spazi e tempi per ricaricare il cellulare e possibile che non possiamo mai farlo per la nostra anima?
Abbiamo l’ansia di restare connessi col mondo e non lo siamo con noi stessi. Non troviamo spazi e tempi.
In inglese si dice: “black-out” cioè “nero fuori”.
Il problema vero invece è il “black-in”, il buio dentro, quando ti manca l’energia e sei sconnesso.
Abbiamo bisogno di attaccarci.
Gesù prende i suoi amici, li porta in disparte, li fa venire alla luce, li fa attaccare alla luce, li ricarica per farli tornare poi a valle, alla vita di ogni giorno.
Questa è la forza della preghiera, dell’interiorità, della spiritualità della meditazione, del farsi domande sul senso della vita.
Questi attimi sono grammi che non pesano, ma contano.
Questi attimi sono grammi che danno la luce e danno alla luce.
Questi attimi sono grammi che danno la vita e danno alla vita.
Se ci accorgessimo di quanti attimi sprechiamo e ci zavorrano.
Eppure è proprio questione di poco. Come dice un proverbio:
“Accendere una piccola luce vale molto più
che stare continuamente a maledire l’oscurità”.