calabroneVANGELO

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinarono a Gesù alcuni sadducèi – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: «Maestro, Mosè ci ha prescritto: “Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello”. C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. Allora la prese il secondo e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. Da ultimo morì anche la donna. La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

RIFLESSIONE

10 novembre 2013

IL CALABRONE NON LO SA
32ma domenica del Tempo Ordinario C

“Secondo i calcoli di alcuni autorevoli testi di Aeronautica,
il calabrone non può volare, a causa della forma e del peso
del proprio corpo in rapporto alla superficie alare.
Ma il calabrone non lo sa e continua a volare” (I. Sikorsky).

È nella logica di un arrovellarsi nel discutere arido e acido
che i Sadducei provocano Gesù sulla vedova ammazzamariti.
La tradizione del tempo, detta “Levirato”, è per noi incapibile.
Era talmente forte il senso di appartenenza al clan familiare,
che un cognato era tenuto a dare un figlio alla vedova del fratello,
se questi era morto senza lasciare discendenza.
Il neonato prendeva il nome del defunto, recuperando il legame.
Il caso è ridicolo: 7 mariti, ma nessun figlio. Di chi sarà dunque?

La discussione parte da un dato oggettivo, si basa sulla Bibbia,
vuole cercare una verità, ma alla fine sfiora il ridicolo.
Quante volte anche le nostre discussioni si esasperano così.
Si discute di politica, di economia, di crisi sociale, di cronaca.
Si discute in televisione, in famiglia, al lavoro, al bar, tra amici.
Si discute nelle riunioni di condominio e in quelle parrocchiali.
Si “aprono discussioni” in facebook, whatsapp, tweet, blog.
Si discute per dire che abbiamo tutte le ragioni e le prove.
Si discute fino al mal di testa e al bruciore di stomaco.
Si discute sparando parole, mettendo dettagli al microscopio,
si alza la voce, si logorano le dita in messaggi. E poi? E alla fine?
“Ma il calabrone non lo sa e continua a volare”.

La discussione, come quella dei Sadducei, non è falsa o falsata,
ma il suo punto debole e la sua pericolosità è l’incomunicabilità.
Gesù ribalta la questione e spinge ad andare su un altro piano:
fa alzare lo sguardo e svela il pericolo di una visione che spinge
nella distruzione le ansie e le attese della vita di tutti i giorni.
Noi siamo gli scienziati che dicono: “non è possibile”.
Dio ci sorride: “Ma il calabrone non lo sa e continua a volare”.
Discutere è importante per sollevare i problemi e affrontare crisi,
ma dalla discussione bisogna passare alla vita.
La discussione senza la sfida della vita taglia le ali al calabrone.

Gesù oggi vuole insegnarci il suo modo di ragionare:
passare dalla “realtà” che vediamo al “realismo” della vita.
Noi giudichiamo ciò che uno fa, Dio si chiede perché l’ha fatto.
Noi vediamo il cosa, lui il chi. Dietro ogni “cosa” bella o brutta
c’è un “io” e un “tu” che la generano e che ne vengono cambiati.

È meravigliosa in questo senso la definizione che Gesù dà di Dio:
“È il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Il Dio dei viventi”.
Un Dio di persone e non di cose, di idee, di istituzioni.
Non è il Dio della pace, della Chiesa, dello Stato, dei puri.
È il Dio di Giorgio, di Sofia, di me, di te, di lui.
Il nome di Dio si mischia con la mia storia personale.

I musulmani pregano con una specie di corona del rosario
che ha 99 nodi: sono i 99 nomi di Dio. Dice il Corano:
“Ad Allah appartengono i nomi più belli, invocatelo con quelli”.
L’onnipotente, il santo, il misericordioso, il creatore, ma anche
il plasmatore, colui che apre, il ben informato, il riconoscente,
il generoso, colui che trova tutto ciò che vuole, il dolcissimo.
Ne manca uno, quello che noi usiamo di più. Non c’è “padre”.
Per noi il “centesimo” nome di Dio è quello fondamentale
perché non dice cosa fa, ma cosa è: generatore di vita.
Bellissimo un altro dettaglio: dice “Dio dei viventi”, non dei vivi.
Vivo è pure un animale. Il vivente è colui che ha in mano la vita.
Non si può porre la domanda: io credo nella vita oltre la morte?,
senza chiedersi: ma io mi accorgo della vita prima della morte?

Dio non ci vuole “onnipotenti”, che fanno tutto bene, perfettini,
ma ci vuole “padri”, cioè capaci di “dare vita”, di dare “alla” vita,
non solo nel senso di fare figli, ma nel senso di “metterci la vita”
in tutte le nostre relazioni, anche con le crisi e le fatiche.
Un padre lo sa: dare vita a un figlio è una sfida faticosa continua.
È la sfida della vita quella che fa volare il calabrone.
Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio di Gesù, ci dice:
tu sei un nome di Dio! La tua vita è un nome di Dio!
Non nominare il nome di Dio invano. Logorarsi è bestemmia.
A volte la forma del nostro carattere, il peso delle nostre fragilità
sembrano dire che è impossibile rialzarci e volare. Ci sono prove.
Il mio poter essere un nome di Dio fa sfidare il cielo e mi tira su.
Come il calabrone.