VANGELO

Dal Vangelo secondo Marco

Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaia: «Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri», vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

RIFLESSIONE

8 e 10 dicembre 2017

LA STELLA SOPRA L’ALBERO

2a domenica di Avvento B

Un albero di Natale che si rispetti deve culminare con una stella.
Tanti pensano che ricordi la stella cometa.
Quasi a dover attaccare con lo scotch qualcosa di religioso su quello che si presuppone essere un simbolo laico perché “non si sa mai” e così la superstizione fa da padrona.
E poi sempre meglio qualcosa di vago che non dà fastidio: ricorda la nascita di Gesù, ma è nascosta dalla magia della poesia e così la si fa deglutire a tutti, distratti dai luccichii.
Detto così è tragicomico, il problema è che ormai è abituale, nel modo comune di concepire il rapporto con Dio, cercare qualcosa – come la stella – da metterci sopra come cappello,
qualcosa di evocativo, indicativo, che non chieda implicazioni.
Quella stella invece esige di assumersi una responsabilità.
Non riporta alla Grotta di Betlemme ma molto più indietro, fino al paradiso terrestre nelle prime pagine della Genesi.
Vi si legge che l’uomo aveva visto chiudersi il cielo dopo che con gesto di libertà aveva detto “no” a Dio. 
Dopo aver voluto fare a meno della dimensione dell’oltre, ritenendo se stesso padrone della vita e plasmatore della verità, aveva fatto essiccare l’albero del bene e del male.
Si era ritrovato nudo verso se stesso e antagonista verso gli altri.
L’uomo, dice Genesi, si vergognò perché era nudo e si nascose.
Gesù invece nasce nudo e nudo si affida agli altri.
Parte da situazione di Adamo e la ribalta. Così riapre il cielo.
La stella sopra il nuovo albero della vita indica la via da seguire verso un cielo che nuovamente si spalanca squarciando il buio: Dio si fa uomo, perché l’uomo possa farsi Dio.
Se ci guardiamo attorno oggi, può capitare di vedere persone che alzano le mani al cielo, che guardano l’infinito bramose.
Non intendo in chiesa, ma per strada, nelle corse quotidiane.
Donne e uomini protesi in fervente attesa, in devoto desiderio perché… non hanno campo e il loro cellulare non prende.
Li vedi protendersi verso il cielo invocando una tacca.
Se desiderassimo Dio, se desiderassimo il bene o la pace come le tacche del wifi il mondo sarebbe un giardino di Eden.
Abbiamo bisogno di cielo, come ne ha bisogno il nostro cellulare altrimenti siamo sconnessi innanzitutto da noi stessi.
“Se ti porto nel bosco mi dici: Portami in centro perché lì non c’è campo, poi vai fuori di testa come l’ultima volta.
Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone ma non abbiamo più contatti, soltanto like a un altro post. 
Mi manchi in carne ed ossa, mi manchi nella lista delle cose che non ho”.
“L’esercito del selfie” di Lorenzo Fragola e Arisa mi rimbalza a una canzone dell’estate 1980 di Gianni Togli, “Luna”:
“E guardo il mondo da un oblò e mi annoio un po’. 
Ho mille libri sotto il letto, non leggo più; 
ho mille sogni in un cassetto, non lo apro più; 
parlo da solo e mi confondo 
e penso che in fondo sì sto bene così. Luna!”. 
L’oblò come immagine della malinconia, a distanza di 40 anni, lo abbiamo staccato dalla parete e ce lo portiamo dietro.
Siamo l’esercito del selfie.
Ora siamo contenti di guardare il mondo da questo oblò digitale.
Questo perché abbiamo nuovamente fatto chiudere il cielo, illudendoci di non averne bisogno. 
Non abbiamo più bisogno di stelle, ci bastano i like.
Abbiamo bisogno di connetterci con l’infinito per contattare noi stessi.
Abbiamo bisogno non di cinque tacche, ma di cinque punte quelle di una stella che ci apra il cielo.
Abbiamo bisogno di sfondare l’oblò e uscire a riveder le stelle.
Questa è la via che oggi siamo chiamati a seguire e preparare.
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MARIA che celebriamo come IMMACOLATA
ci dice che questo è possibile. Lei lo ha reso vita e fatto storia.
Per questo la tradizione antica canta “ave maris stella”,
“stella del mare”, cioè la stella polare con le sue 3 qualità:
è la prima che compare quando scende il buio,
è l’unica che resta fissa indicando il nord,
è l’ultima che va via quando arriva l’alba (la stella del mattino).
Maria fa “venire alla luce” Gesù e ora porta noi verso la luce.
Abbiamo anche noi bisogno di venire alla luce.
Quante volte nella quotidianità scende la nebbia del tramonto,
le ombre del pessimismo accorciano l’orizzonte.
La stella polare appare subito sul nostro mare agitato.
Non vince il buio ma ci tende una mano, ci accompagna.
Tutto intorno a noi gira vorticosamente e noi abbiamo vertigini.
La stella polare sta fissa. Ovunque ti giri ti indica il nord, ti dice che c’è un “al di là”, che c’è una strada in mezzo al buio per arrivare al di là di ogni notte, di ogni paura, di ogni nero.
Non solo lo annuncia, ma la stella polare ti porta fino all’alba e finché la luce non sorge lei sta con te. Come Maria.
Come Maria, nel buio della vita, anche noi siamo gravidi di luce.
Abbiamo bisogno di venire alla luce.
Gesù è l’alba di un mondo nuovo, “il sole che sorge”.
Se lui è il nuovo Adamo, l’uomo nuovo che ci rende nuovi,
Maria diventa per noi la nuova Eva, la madre dei credenti.
E lo è fino in fondo e lo sarà fino alla fine, fino alla croce, quando questo bimbo che nasce glielo daranno in braccio ucciso.
Quando Maria presenta il bambino Gesù al tempio si sente dire: “anche a te una spada trafiggerà l’anima”.
Nelle raffigurazioni classiche Gesù crocifisso e Maria addolorata hanno un particolare in comune: il cuore squarciato.
Nella Genesi per formare Eva, viene squarciato il petto di Adamo e quella costola messa in Eva è il primo trapianto di cuore.
Una ferita, quella della croce, che così diventa linfa di vita nuova nella risurrezione. Una vita immacolata, per Maria e oggi per noi.
Maria lo ha vissuto per prima, ci ha anticipato come stella polare per dire che anche per noi c’è un trapianto di cuore di vita nuova.
Maria immacolata viene poi raffigurata che schiaccia il serpente con il suo piede: è la rivincita di Eva che batte colpa e debolezza,
è la donna dell’Apocalisse che è coronata di gioia e speranza.
Il male, la fragilità, la sofferenza non fanno più paura.
La stella che brilla fissa, fedele, che sfida buio e tempeste, ci prova che le crisi sono trasformate in opportunità tanto che sul nuovo albero della vita anche il serpente
e il frutto del male trovano una nuova occasione di vita.
Papa Francesco ha detto: “La vita è contaminazione di luce. 
I cristiani non sono esenti dalle tenebre, esterne e anche interne, ma sono uomini e donne “orientati”, girati verso Oriente, dove sorge la luce, simbolo della speranza. 
Nell’antichità le chiese erano costruite proprio così: 
si entrava nell’edificio sacro all’alba, da una porta verso ovest, quindi venendo dal buio, e ci si dirigeva verso il sole che sorge.
Vuol dire essere capaci di fare la professione di fede nella luce.
È la scommessa della speranza che non crede nell’oscurità”.
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Disse Galileo Galilei: “Ho amato le stelle troppo profondamente per aver paura della notte”.
Disse il Piccolo Principe: “Le stelle sono illuminate perché ognuno un giorno possa trovare la sua”.
Disse Benjamin Franklin: “Capisco come si possa guardare il mondo degli uomini di giorno ed essere atei.
Non capisco come si possa guardare il cielo stellato di notte e non credere in Dio”.