buon pastoreVANGELO

Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola: «Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

RIFLESSIONE

15 settembre 2013

DIO NON SCUSA. PERDONA
24ma domenica del Tempo Ordinario C

Una pecora che fugge, un figlio che se ne va di casa,
l’altro che non vuole entrare risentito. Qualcosa di valore perso.
Quando tutto ciò che era perduto è stato ritrovato,
devo farmi esplicitamente una domanda: perché se ne è andato?

Don Primo Mazzolari, mette sulla bocca del figlio queste parole:
“Non chiedermi: “cosa c’è?”, ma chiedimi “cosa non c’è?”.
Qui soffoco! Me ne vado perché qualcuno ha avvelenato l’aria.
Mi sento schiacciato dalla meschinità di questi esseri curvi
da queste anime sgangherate, timidi devoti, vasi di noia”.

Curioso che anche Gesù se ne va in questo Vangelo:
va a cena con personaggi malfamati. Questi però lo ascoltano.
Nel mondo arabo il mangiare insieme è simbolo di condivisione.
I benpensanti restano scandalizzati da questa “complicità”,
come se Gesù giustificasse certe condotte immorali.
Per di più per gli ebrei Gesù così commette un “atto impuro”.
La gente pettegola mormora: “non c’è più religione!”.

“Mormorare” è la prerogativa di chi si crede a posto.
Pettegola chi si sente sempre migliore e non sa o vuole guardarsi.
L’amore dimostra il contrario: si perdona “finché” si ama.

La buona e bella notizia del Vangelo è il volto rugoso del padre,
con gli occhi consumati dall’orizzonte nell’attesa del figlio.
Niente moralismi, giudizi, condanne, prediche, recriminazioni.
Solo il denso silenzio di un abbraccio inaspettato e gratuito.
Più che “del figlio prodigo” è parabola del “padre che ama”.
Il vero spendaccione è il padre: uno spendaccione d’amore.

Dio oggi ci insegna che amare è accettare l’altro
senza pretendere che si trasformi secondo i nostri criteri.
Sottile è il cambiamento fatto dalla Chiesa nella formula
del matrimonio: da “io prendo te” a “io accolgo te”.
Amare non è volere la perfezione, ma abbracciare i difetti.
Invece noi siamo anoressici di tenerezza e bulimici di autostima.

L’assurdo delle prime due parabole è il ritratto di Dio.
Le parabole iniziano con “chi di voi?”. La risposta è “nessuno”.
Nessun pastore arriverebbe mai al rischio di abbandonare
un intero gregge per salvare una sola pecora,
né una donna, per quanto ansiosa di ritrovare il portafoglio perso,
fa una festa per spendere per gli altri i suoi soldi che ha ritrovato.

L’assurdo della terza parabola è invece il nostro ritratto:
da una parte è più un calcolo di convenienza che spinge il figlio
a cercare scuse per tornare a casa (infatti parla di salario),
dall’altra l’amarezza del figlio maggiore che si sente il migliore
e ritiene “ingiusto” – da giudice acido – far festa per un lazzarone.

Noi non tolleriamo noi stessi, figuriamoci gli altri e Dio stesso.
Ci vediamo noi a lasciare novantanove certezze comode
e affrontare fatiche per cercare la centesima persa? Mai.
Ci vediamo noi a spazzare e ribaltare la nostra coscienza
per ritrovare un pezzo dimenticato di noi stessi? Mai.

Questo è ciò che Dio invece sogna per noi.
La logica di Gesù è “perdonare” e non “scusare”.
Perdonare è offerta di un futuro a chi non ha scuse.
Mentre lo scusare prende atto di alibi e attenuanti,
il perdono, proprio mentre “accusa” (non hai scuse!), libera.

“Perdonare è liberare un prigioniero
e scoprire che quel prigioniero sei tu”.

Bello è far risalire l’etimologia di perdono a “iper-dono”,
cioè “il dono più grande”. Questo è ciò che Dio fa con noi.

Forse dovremmo imparare a scusare meno noi stessi
ma a perdonarci di più. È la festa di un abbraccio liberante,
perché ritrovi pezzi di vita che pensavi persi o fuggiti.