I villaggi lungo il fiume Rejang

stralcio dal libro “Non dite a Sandokan che sono stato qui”

Capitolo 1: Sulle orme di James Brooke

Un piccolo groviglio di fiumi fangosi che dall’alto si facevano desiderare di più ad ogni metro di quota che si perdeva. Una foresta spaccata, o quel che di lei rimaneva, stretta tra strade e canali. Un aeroporto non troppo in salute, un po’ scalcinato, che sembrava più che altro una stazione degli autobus. Un grande caldo. Kuching, finalmente il Borneo.
Nel giro di poche ore, dalla frenesia della metropoli più moderna del mondo mi ero trovato a passeggiare lungo il sungai Sarawak, che scorreva lento tra le due metà di una città sonnolenta e affascinante, tra gli sguardi curiosi delle ragazze cinesi affaccendate dietro le loro bancarelle di collanine e dolciumi e quelli disimpegnati di qualche coppia di turisti seduti nei tavolini poggiati alla ringhiera, a osservare il lento scorrere dei battelli sorseggiando l’immancabile Tiger Beer, mentre sullo sfondo il palazzo bianco dei rajah dominava su di noi.

Borneo: perché questo nome ancora affascina come pochi altri? Perché si percepisce una strana sensazione, quasi di mistero romantico, al solo scandire delle sue sillabe? Perché nessuno ne parla mai e quasi nessuno ci va, e quei pochi quasi sempre per affollare i soliti due o tre posti, o le solite isole tropicali, che sono uguali in tutto il mondo? Ma il Borneo è tutt’altro che una barriera corallina per riviste patinate.

La prima volta che restai incuriosito da questo nome fu in quarta elementare. Eravamo alla fine degli anni settanta, e lo ricordo bene perché allora si era piuttosto diffuso un album di figurine sul mondo animale pubblicato dalle Edizioni Flash. Ricordo bene la mattina che trovammo davanti alla scuola quelli che a me sembravano grandi uomini, ma probabilmente erano solo ragazzi che arrotondavano con qualche lavoretto, che distribuivano ai bambini gli album vuoti con alcune bustine in omaggio. Ogni tanto capitava di trovare simili personaggi, ed era sempre bello attaccare le prime figurine, anche se poi la maggior parte delle raccolte viveva la gloria di una settimana o poco più, eccettuate quelle sui calciatori, rigorosamente maschili. Quell’album sugli animali, invece, benché piuttosto grossolano e semplice e con gli animali presentati solo con dei disegni (ma forse il bello era proprio quello), aveva avuto un successo superiore agli altri e ancora lo posseggo, integro come allora.
Nelle prime pagine, dedicate ai mammiferi, la bestiola più strana di tutte era una piccola scimmia dal manto nero, con due occhi enormi e zampe quasi da rettile. Era chiamata, con un italiano zoppicante, Mago di Borneo. Chissà perché quel nome? Da dove lo avevano pescato? Dall’immagine sulla figurina si vede chiaramente che si trattava del tarsio malese (Tarsius bancanus), che in alcune parti delle Filippine chiamano anche mago, o anche mamag, magau emagatilok-iok. Ma “tarsio malese” non avrebbe avuto forse lo stesso fascino di “Mago di Borneo”.
Cercai sul mio libro di scuola, ma il Borneo era solo un piccolo punto lontanissimo dall’Italia in una cartina geografica globale. Il fascino cresceva, e dilagò con Sankokan, Labuan, il Sarawak e James Brooke.
Poi, il mio primo vero atlante rappresentò quasi un passaporto per stabilire rotte estreme, scovare approdi e identificare finalmente la grande isola del Borneo, nel mezzo del fantastico arcipelago indonesiano tra le Molucche e la penisola malese, tra la Cina e l’Australia, tra i sogni e le leggende che affollavano la mente di un bambino.
E un mondo così lontano, che in alcune sue zone è rimasto quasi completamente isolato sino all’ultimo dopoguerra, non poteva che fare quell’effetto, a tutti.

L’antropologo ed esploratore inglese Tom Harrisson – che si paracadutò nelle Kelabit Hilghlands per comandare un’azione militare anglo-australiana contro i giapponesi durante la Seconda Guerra Mondiale, e da lì iniziare la liberazione del Borneo -, un uomo che legò al Sarawak gran parte della sua esistenza, assumendo per dieci anni la direzione del museo di Kuching, così descrisse l’altopiano di Bario, quando vi giunse dall’alto, sessant’anni prima di me :

In una terra dove quasi tutto viaggia lungo i fiumi, questo altipiano può essere raggiunto solo a piedi, con grande fatica sotto il sole dell’Equatore. Ci sono alcuni posti sulla mappa del Borneo – e, più in generale, sulla mappa del mondo – dove tu puoi spingerti lontano da un posto conosciuto o da un buon punto di decollo. Ma ce ne sono pochi, in realtà, dove puoi essere più distante da quello che la gente chiama “il mondo”. E ne esistono ancora meno in cui ti puoi sentire più remoto, più tagliato fuori dal resto della civiltà.

Chissà, forse sarà stato solo un caso, ma anche Joseph Conrad, che tanto aveva viaggiato lungo i mari del mondo, si decise a scrivere il suo primo romanzo, non più giovanissimo, durante una traversata che da Singapore lo aveva portato a costeggiare il Borneo, e ad ambientare in quelle terre e in quei mari i travagli interiori dei suoi primi personaggi.

E poi cos’erano i midin? Un uomo con un cumulo di frutta e verdura stese su un telo poco fuori l’aeroporto di Kuching urlava questo nome a tutti i passanti, ma aveva almeno altre dieci cose diverse in vendita. E io ero già sull’autobus che mi stava portando in città.

Link al libro

www.simonemariotti.com

Fiume

Harrisson, Tom, World Within. A Borneo Story. The Cresset Press, Londra 1959.