thailandia2Ultima settimana frenetica. Lavoro, casa nuova, preparativi e acquisti si mischiano con progetti ben più grandi e importanti. Ed è così che senza quasi capirlo affronto le ultime 24 h 3 in un baleno mi ritrovo sull’aereo in fuga dall’Italia con destinazione Mosca.
Atterraggio. Ritiro il mio zaino dall’ufficio bagagli ingombranti e veniamo caricati su una dubbia macchina che tra zig-zag, eccessi di velocità e sorpassi sulla destra riesce a infrangere tutto il codice della strada ben prima di arrivare a destinazione.
Hotel Cosmos. Siamo accolti dalla dolce Chantal, nome d’arte da me attribuitogli, che con fare carino e ammiccante ci invita insistentemente a visitare il Solaris, night e seconda attrazione dell’hotel. Scopriremo la prima solamente qualche ora più tardi quando, dopo una buona cena e un paio di birre, decidiamo di rientrare in albergo dove siamo accolti da una sfilata di sorrisi. More, bionde, giovani e “milf”, tute accomunate da un unico fattore: il sorriso, la prima arma il loro lavoro di adescatrici.
Sveglia di buona ora, colazione e usciamo a fare un giro per la città. Il primo impatto con il trasporto pubblico moscovita è traumatico: tutto è scritto in cirillico! Tra un paio di giorni già non avremo più neanche bisogno di guardare la mappa sulla carrozza della metro. Il treno sferraglia lungo il tunnel fino a Kitaj Gorod, dove ci imbattiamo in un gruppo di italiani un po’ più cresciuti di noi e decisamente più esperti della città che ci conducono per mano fino all’ingresso della piazza rossa dove, sopraffatti e storditi dal primo impatto li perdiamo di vista. San Basilio è la prima a comparire imponente con le sue guglie per guidarci nella piazza costeggiata su di un lato dal rosso muro di cinta del Cremlino e dall’altra dal GUM, il centro commerciale più grande di questa capitale.
Sul fondo si staglia la cattedrale Kazan con il portale d’ingresso alla piazza posto alla sua destra, entrambi distrutti nel 1963 quando Joseph Stalin ordinò la loro demolizione per preparare la Piazza Rossa alla sua nuova funzione di area per le parate militari, e in seguito ricostruiti alla caduta del regime sovietico sulla base di fotografie della chiesa originale.
Troviamo un ristorante dove mangiare un po’ di mucca “MY MY” e beviamo qualche sorsata di birra ascoltando musica suonata da ragazzi in mezzo a una piazza, mentre una mascotte a forma di mucca staziona fuori dal locale.
Ci avviamo alla ricerca di una metro contrassegnata dagli onnipresenti caratteri cirillici non dimenticandoci di seguire il consiglio datoci qualche ora prima da un gruppo di turisti di vedere la piazza Rossa con le luci della notte. Indimenticabile! Ci perdiamo per trenta minuti a scattare foto, persino alle strisce pedonali… le più lunghe del mondo secondo il mio punto di vista…

La prima vera giornata a Mosca è dedicata al Cremlino, circondati da chiese, cannoni e campane davvero giganti. Cerchiamo di ottenere l’ingresso anche all’Armeria, ma scopriamo che vendono i biglietti solo quarantacinque minuti prima dell’inizio di ogni visita (una ogni ora). Alla fine entriamo e, tra tante armature, armi, gioielli e vestiti sfarzosi, la cosa che più mi colpisce sono le carrozze. Una sala intera è dedicata alle carrozze antiche utilizzate da regine e conti nelle epoche passate e accuratamente conservate in questo museo: esiste anche una carrozza-slitta per i climi più avversi.
Ci spostiamo più a sud-ovest verso la riva del fiume dove, da buoni italiani, tentiamo di entrare nella chiesa di Cristo Salvatore nonostante i nostri pantaloncini corti e un cartello affisso in bella mostra che senza dare appello alle incomprensioni linguistiche ritrae inequivocabilmente un paio di pantaloncini barrati da una spessa linea rossa. Un po’ affranti e umiliati ci ripromettiamo di recuperare il giorno seguente con un paio di jeans.
Dopo una mezz’oretta di cammino per vie e viottoli giungiamo guidati dal mio infallibile senso dell’orientamento fino alla “Old Arabat Ulitsa”, una delle vie più tradizionali e antiche di Mosca. Dopo un fugace pranzo e qualche foto distratta scorgiamo un simpatico vecchietto che inizialmente scambio per Babbo Natale. Appurata l’assenza delle inseparabili renne, ci lasciamo però stregare dalla sua semplice e minuta bancarella ricoperta completamente di matriosche colorate.
Uno spettacolo unico che gli fa vendere subito tre matriosche di 5 pezzi l’una, tre gadget portachiavi e soprattutto tre foto con Babbo Natale!
Il totale? Poco più di 350 rubli a testa (10 euro circa).

Ci concediamo un breve riposino in albergo per poi dirigerci, come da consiglio di una cara amica della lontana città natale, verso la “collina dei passeri”. Ex collina di Lenin è ora sede dell’università di Mosca e sembra godere di una vista unica sulla città di Mosca. Quarantacinque minuti di metro e venti minuti di camminata risultano ben spesi quando rimango senza respiro davanti alla vista di una delle “sette sorelle”: palazzi e vere e proprie torri di Babele in stile “torta nuziale”, come recita la nostra guida di Mosca. Una costruzione titanica, di quelle che solo le dittature possono permettersi e che solo a distanza di vari kilometri riesco a inquadrare interamente nel mio obiettivo fotografico. Altri venti minuti di cammino per scoprire che la parte migliore del belvedere su Mosca è chiuso da transenne per permettere le esibizioni stile “burn-out” di alcuni motociclisti. Ceniamo comunque godendoci un panorama di tutto rispetto ai piedi del trampolino olimpico, che lanciava gli sciatori direttamente sulla città di Mosca, per poi raggiungere tra mille peripezie e parchi bui la stazione metro costruita sul fiume.

L’ora è tarda e torniamo in albergo dove, sebbene con ancora molte energie da spendere, ricambiamo i mille sorrisi di ragazze stupende e ringraziamo l’instancabile Chantal, ma dopo un cuba libre nella hall ci ritiriamo da soli nella nostra stanza.

E’ martedì ed iniziamo la giornata visitando qualche stazione del metro, vere e proprie opere d’arte, un museo costituito da grandi atri illuminati da lampadari antichi, pavimenti e pareti ricoperte di mosaici; tutto il contrario delle grigie pareti del metro milanese.
Una passeggiata nel parco antistante al Cremino, scambiando qualche sorriso con le bellissime russe che ci circondano in ogni pellegrinaggio per le vie della città, fino a fermarci davanti al milite ignoto, giusto in tempo per assistere al cambio della guardia. Ci imbarchiamo su una carrozza del metro fino alla stazione di Belorusskaya (o qualcosa di simile), luogo ideale, secondo la nostra fedele guida del 1999, per la ricerca del rinomato caviale russo. Dopo una quarantina di minuti di camminata in questo dubbio quartiere desistiamo e ripieghiamo in albergo dove conosco Caterina, guida turistica nella città di Mosca per un’agenzia viaggi, che ci consiglia per la notte un locale chiamato “Propaganda” e situato nella zona di Kitaj Gorod. Il consierge della reception aggiunge come consiglio una discoteca nella stessa zona e di nome “13”, peccato che si dimentichi di avvisarci dell’obbligo di abito scuro per entrare e che comunque non avremmo avuto, visto il bagaglio leggero e molto casual che portiamo con noi per questo viaggio.
Non ci accontentiamo della bella cena e una simpatica cameriera russa ci indirizza in un altro bar per un cocktail: ragazze veramente belle riempiono i tavolini isolati e inattaccabili, come le ragazze stesse. Due motivi mi legano alla sedia: la lingua, in quanto tutti davvero sembrano non parlare assolutamente una parola d’inglese; e la tipologia di accompagnatori delle ragazze, molto più attempati e meno carini di loro.
Si torna in albergo dove il sorteggio della “brandina”, terzo letto aggiunto in una stanza doppia, è vinto ancora una volta dal buon Renato che passa così subito in testa alla classifica con due notti su tre nel letto più scomodo; secondo in lista Mattia.
Inizia l’ultimo giorno a Mosca. Ci alziamo giusto per fare colazione prima della chiusura del ristorante nell’albergo, e torniamo a dormire in camera giusto il tempo per arrivare al mausoleo di Lenin nella Piazza Rossa per le 13.15, giusto un quarto d’ora dopo la sua chiusura. Passiamo il resto della giornata seduti su di una panchina nel mezzo del parco, dando voti alle passanti, visitando finalmente la chiesa di Cristo Redentore grazie a un paio di lunghi jeans, e il vicino “ponte dei lucchetti”, concludendo infine con qualche acquisto e scaricando le già 1000 foto in un’internet cafè lungo Ulitsa Arbat.
L’ultimo saluto a Mosca è nella hall del Cosmos, poco prima della partenza verso l’aeroporto, quando Caterina, la guida, mi confessa la sua grande invidia per il viaggio back pack che ci attende: non posso che capirla…
….Thailand we’re coming…

Tra Bangkok e Ayuthaya – 03 agosto 2007

E’ su un autobus che collega Ayuthaya a Sukhothai, tempo di viaggio previsto sei ore, che trovo finalmente il tempo per scrivere e raccontarvi l’arrivo in questo paese così ospitale, la Thailandia.
Un viaggio aereo massacrante ci porta in una notte da Mosca fino al nuovo aeroporto di Suvurnabhum – Bangkok – inaugurato solamente la primavera scorsa. Ritiriamo i bagagli e ci dirigiamo al punto informazioni appena fuori la luggage area dove iniziamo fin da subito ad apprezzare la cordialità dei Thailandesi che ci aiutano a orientarci. Subito fuori dal terminal una navetta ci trasporta fino alla stazione degli autobus di linea gratuitamente, a differenza dei servizi prontamente offertici da 4 o 5 “taxisti” thailandesi che puntellano l’uscita dell’aeroporto in attesa dello sbarco di qualche turista sprovveduto: ci caschiamo quasi anche noi, ma riusciamo a farci strada tra di loro a suon di “no thanks” e a raggiungere lo shuttle bus.
Un signore in divisa blu sulla pensilina ci indirizza all’autobus numero “334” a bordo del quale l’autista, pur non parlando una sola parola d’inglese, riesce a farci capire a gesti e sorrisi che il biglietto possiamo comprarlo direttamente on-board. Saliamo e sistemiamo gli zainoni in mezzo a sguardi che traspaiono un po’ di stupore e curiosità nel vedere tre europei viaggiare con loro. Nel giro di poco giunge finalmente una ragazza che, con un discreto inglese, si assicura della nostra direzione, l’ex aeroporto di Bangkok – Don Muang, e al momento opportuno ci avvisa di scendere alla fermata. Siamo gli unici tre stranieri non solo a bordo ma anche una volta scesi dall’autobus dove, tra mille passaggi sopra una passerella che scavalca la superstrada, incontriamo un signore in giacca e cravatta che, senza che accennassimo minimamente a chiedergli aiuto, si ferma per primo e in un inglese con un accento strano ci chiede “Do you need any help?”. Scopriamo che la stazione dei treni che si trova a circa un miglio di cammino a lato della superstrada e che sarebbe bastato semplicemente scendere dall’autobus alla fermata successiva, ma non ci lamentiamo (più di tanto) e ci avviamo tra le bancarelle di un mercato.
Non facciamo a tempo ad entrare in stazione che un signore in attesa del treno si fionda letteralmente da noi non appena ci vede comparire su questa striscia di cemento che ricorda vagamente una pensilina del treno: sembra quasi volersi accaparrare per primo l’onore e il piacere di aiutare tre stranieri. In un batter d’occhio ai suoi consigli e indicazioni si aggiungono anche quelli di un agente della polizia ferroviaria con cui degusto anche una sorta di spiedino di palline di carne che compriamo direttamente sulla banchina in un chiostro che lo frigge al momento: “Particolare”.
Compriamo i biglietti per un’ora di tragitto in treno e che ci costano ben undici bath! In tre ! 1 € = 45 bath, circa 8 centesimi di euro a testa. Quella che ci aspetta è la terza classe, segnalataci da un’amica italiana prima della partenza come fortemente da evitare: iniziamo bene! Saliamo i tre gradini della carrozza, fin troppo simile a quelle delle ferrovie dello stato italiano, e sorrido notando che siamo ancora una volta gli unici tre stranieri: scelta azzeccata. C’è posto a sedere solamente per Renato, nessun problema: seguo l’esempio di un ragazzo sul treno con noi e mi siedo sui gradini di accesso al vagone. Le uniche porte di chiusura della carrozza mi ricordano quelle delle vecchie case delle nonne, con i vetri infilati all’interno di una sottile cornice di legno, e che sono puntualmente troppo corti di quel mezzo centimetro lasciando una fessura in alto tra vetro e legno. Ma non appare assolutamente un problema dato che hanno tutto l’aspetto di non venire chiuse da parecchi anni e non sarò certo io a iniziare. Con il vento in faccia e il terreno che scorre veloce a un metro da me ammiro un panorama per me del tutto nuovo, fatto di palafitte e laghetti. Stringo amicizia con il ragazzo thailandese seduto sui gradini in fianco a me, Nirtac (così suonava il suo nome), è anche lui diretto ad Ayuthaya, casa sua. Mastica qualche parola d’inglese e mi offre anche una sorta di panzerotto appena acquistato da un thailandese che li vende vagone per vagone. Gli offro in cambio dell’acqua e scendiamo salutandoci dal treno ormai giunto alla nostra destinazione.
Ci è stato dato un consiglio prima della partenza, e da giorni ce lo ricordiamo a vicenda: “Contrattare, contrattare sempre!”. Ce lo ripetiamo un’altra volta mentre andiamo in cerca di un tùk-tùk, sorta di carretto motorizzato a tre ruote e in grado di trasportare secondo la tipologia dalle quattro alle sei persone (batteremo più avanti questo record). Siamo pronti carichi e con l’arte della contrattazione che pervade ogni vena del nostro corpo. Diciamo la nostra destinazione all’autista, chiedendo il prezzo prima di salire… “50 bath” è la risposta a cui segue in coro un “OK”… la contrattazione più veloce della storia!
Arriviamo alla guesthouse consigliata dalla Lonely verso le 2 p.m.: è accogliente e le ragazze che la gestiscono cordiali ma, nonostante la necessità impellente di una doccia post-viaggio, scopriamo che stanno riparando un guasto e che non ci sarà acqua fino alle cinque, che poi diventeranno le sei. Malvolentieri rimandiamo la doccia e andiamo a mangiare un boccone in un locale poco distante dove noto una ragazza dai capelli biondi pranzare da sola. Consapevole degli insegnamenti di un caro amico esperto viaggiatore solitario, mi alzo e la invito a unirsi a noi. Accetta di buon gusto. Paulina è tedesca, occhi azzurri e fa l’attrice, ma si diletta anche a cantare. Ci salutiamo dopo pranzo e prontamente affittiamo tre biciclette che, nel rischio di perdere Renato per un manubrio troppo allentato, ci portano a visitare l’ultimo tempio ancora aperto. Un Buddha gigante tutto rivestito d’oro luccicante siede instancabilmente al suo interno tutto il giorno.
Finalmente la doccia che lava via un po’ di stanchezza, ma non prima di aver incontrato un camion fermo a lato della strada da cui alcuni uomini cercano di scaricare niente di meno che due enormi elefanti: everyday life! Torniamo nelle strade oramai buie e contornate da fantastici templi completamente avvolti in una luce artificiale che gli trasmette un’aurea soprannaturale: uno spettacolo unico!
Pedaliamo in mezzo al mercato notturno e mangiamo in un’area di soli thailandesi: menu a base di bistecca e patatine fritte, non siamo ancora pronti per lanciarci sui piatti locali cucinati in mezzo alla strada. A cavallo della nostra bici torniamo nel “ghetto” delle guesthouse popolate dai ragazzi back-packer. Ritroviamo nello stesso locale del pranzo Paolina, questa volta in compagnia di Matteo, ragazzo italiano giramondo, Anna, tedesca, e Brendan proveniente dalla Nuova Zelanda. Una birra e il locale sta già chiudendo, ma ad attenderci c’è il Moon Café e il suo chitarrista tailandese che, con il sorriso tatuato perennemente in faccia, allieta la nostra serata accompagnato dalla voce di un inglese, trasferitosi in pianta stabile ad Ayuthaya da oltre tre anni a insegnare la lingua anglosassone.
Finalmente convinco Paulina: rompe ogni timidezza e ci canta una canzone. La birra scorre a fiumi e la sveglia incombe domattina.

Schiaccio il tasto “Snooze”del cellulare una decina di volte fin quando ci ritroviamo catapultati su di un tùk-tùk diretto alla stazione degli autobus in cerca dei biglietti per il prossimo autobus con destinazione Sukothai: una decina di minuti di strada che procurano un paio di contusioni in testa a ognuno di noi a causa delle varie buche e della velocità con cui si muovono questi piccoli trabiccoli. Facciamo giusto in tempo a tornare all’ostello a raccogliere le valigie, riconsegnare le bici e fare una colazione fugace e il nostro fidato tùk-tùk driver preferito di Ayuthaya è già lì ad attenderci. Ci togliamo la soddisfazione di contrattare 100 bath per l’ultimo trasporto in questa città.
E’ già l’una quando il mini bus fa una sosta per la pausa pranzo e per farmi fare conoscenza con il primo bagno senza sciacquone: semplicemente una vasca con una scodella galleggiante in una vasca a fianco della turca.
Neanche il tempo di una sigaretta e si riparte.

04 Agosto 2007

Il viaggio in bus di sei ore verso Sukothai vola letteralmente. Un po’ di conversazione con Pietro e sua moglie, un’oretta in spagnolo e qualche frase in un misto inglese-thailandese con un signore che al nostro arrivo si offre anche di darci un passaggio con il suo tùk-tùk in centro a Sukhothai: la stazione autobus si trova un paio di Km fuori dalla città. La guesthouse consigliata dalla nostra inseparabile Lonely ancora una volta stupisce per la cordialità dei suoi gestori.
Due passi veloci nel centro, doccia e si riesce per cena. Un po’ diffidenti giriamo tutte le bancarelle che cucinano direttamente in strada fin quando ci decidiamo a sederci su tre sgangherati sgabelli posti sopra un marciapiede in fianco a un carretto dal quale ci servono tre noodles con carne, accompagnati ovviamente da tre birre Lions. Cena da ricordare. Siamo gli unici europei nella bancarella-ristorante e gradiamo a tal punto il cibo locale da faticare personalmente a lasciarne un poco nel piatto, come il galateo locale insegna. Continuiamo la serata al Chapper bevendo frullato di banana e birra Chiang in compagnia di un altro viaggiatore solitario proveniente da Newcastle. Ci racconta che questa birra è chiamata scherzosamente Chiangover dalla parola inglese “hang-over” che significa sbronza e che rispecchia lo stato in cui ci si trova il giorno dopo averla bevuta.
Sveglia in quella che per noi sembra l’alba, ore 9, per colazione in guesthouse e visita durante la mattinata al “parco storico di Sukhothai”, nonché vecchio centro cittadino localizzato a 14 Km di distanza. Contrattiamo come al solito un tùk-tùk che qui hanno un aspetto già diverso da quelli di Ayuthaya: si tratta di motociclette cui è stata sostituita la ruota anteriore con un carretto provvisto di panche sui due lati. Giriamo le rovine per tre ore di filata, in sella alle bici appena noleggiate all’ingresso: il parco è davvero bello e tra vento, verde e due pedalate concilia una pace interiore che qui tutti sembrano possedere, pacati e tranquilli, sempre disponibili ad aiutare.
Riusciamo ad arrivare appena in tempo in stazione per comprare tre biglietti su di un autobus di seconda classe con destino Chiang Mai, nel nord della Thailandia. Mentre carico lo zaino sull’autobus popolato di soli thailandesi, scambio un paio di sorrisi con una ragazza che mi osserva dal finestrino. Il posto a sedere vicino a lei è occupato purtroppo e mi siedo vicino ad un’altra ragazza, un po’ più “in carne”.
“Cherd Chai 15” c’è scritto sul mio sedile, chissà che vuol dire?

05 Agosto 2007

Chiang Mai, è una vera e propria città, molto diversa da tutte le città della Thailandia viste finora. Proviamo un paio di guesthouse, ma alla fine decidiamo di “ripiegare” sul Summit Hotel. Ancora non abbiamo pranzato e la fame inizia a fare sentire: da puri turisti finiamo a mangiare fajitas in un saloon di un americano che, scambiandoci per suoi connazionali, prende in giro per mezz’ora gli europei in generale prima di accorgersi della nostra vera provenienza.
Contrattiamo un tùk-tùk e raggiungere il bazar notturno intorno alle undici: troppo tardi, un’oretta e le bancarelle stanno già chiudendo. Riusciamo comunque a fare un paio di affari e a prendere una gigantesca cantonata da una ragazza che, sorridendo a più non posso, riesce a venderci tre file di palle colorate per 200 bath l’una: le troveremo poco più avanti nella via per novanta bath. Finiamo la serata bevendo un drink in un bar mentre vediamo smontare le bancarelle.
La mattina seguente è dedicata a organizzare i futuri spostamenti, mentre nel pomeriggio ci rechiamo poco fuori città presso il Wat Oo-Mong. Qui dialoghiamo con un monaco e sentiamo i suoi racconti di vita e assistiamo in riva a un laghetto a una spiegazione della filosofia buddista da parte del “monaco anziano” del tempio. Torniamo indietro con il nostro fedele autista che ci ha aspettato tutto il tempo all’ingresso del tempio e ceniamo presso il tipico ristorante thailandese Aroon Rai Restaurant.
Recandoci al bazar, dove dobbiamo concludere un paio di acquisti studiati il giorno prima, facciamo una sosta per un cocktail presso un bar che ci si affaccia su di un incontro di thai boxe e su ragazze che ci chiamano a gran voce dai locali vicini: sono in cerca di uomini e soldi. E’ domenica e il bazar sembra debba chiudere prima del solito: riesco appena a contrattare un paio di pantaloni leggeri e si torna nella zona dell’albergo. A differenza degli altri non ho sonno e mi reco da solo a bere un bicchiere di birra in un bar. In meno che non si dica mi ritrovo seduto a un tavolo con una ventina di stranieri e con Jum, ragazza thailandese che mi ha invitato ad unirmi alla loro compagnia. Tra un cestello e l’altro di alcolici ci spostiamo al Moon Cafè prendendo un tùk-tùk in otto: record ancora viene narrato ai giovani tra le leggende di Chiang Mai. La musica è bella e il locale pieno, si fanno tante risate e si balla fino al mattino. Fino a quando vengo riaccompagnato all’hotel da Jum ed un’altra amica, in tre sul suo scooter. Saluto tutti, ma non prima di essermi fatto lasciare almeno un indirizzo mail per il rituale scambio di foto. Tre ore di sonno e si parte per PAI.

06 Agosto 2007 – PAI

L’autobus ormai è dedicato a scrivere, mentre fuori dal finestrino scorrono paesaggi di luoghi mai visti prima. Siamo appena partiti verso PAI, 98 Km a Nord Ovest di Chiang Mai e tre ore e mezzo di viaggio: spostarsi anche di pochi Km sta diventando impegnativo, non oso immaginare la strada che ci aspetta. Le due notti a Chiang Mai sono servite anche per organizzare i prossimi spostamenti prima verso nord fino al confine con il Laos, poi lungo un fiume fino a Luang Prabang, al centro del Laos settentrionale, e quindi un volo verso la città di Hanoi – Vietnam.
In pullman chiacchiero con un ragazzo londinese che girovaga da sette settimane e che mi consiglia di vedere assolutamente SAPA, nel nord del Vietnam: penso ascolterò il suo consiglio. E’ già passata ormai un’ora quando finalmente finiamo di girovagare per le vie di Chiang Mai a recuperare i vari passeggeri ed usciamo dalla città dirigendoci verso nere nuvole cariche di pioggia. Siede vicino a me una ragazza: almeno è scongiurato il pericolo che si ripeta l’esperienza di due giorni fa sull’autobus tra Luang Phung e Chiang Mai.
Le curve per raggiungere, PAI mi impediscono di continuare a scrivere.
La guesthouse Bean Tawan è semplicemente stupenda, abbiamo un cottage tutto per noi che si affaccia direttamente sul Pai River: prendo possesso del letto accanto alla finestra per svegliarmi guardando il sole specchiarsi nell’acqua del fiume che scorre. Affittiamo due motorini ci rechiamo a una decina di kilometri di distanza per visitare le cascate, dove una ragazza esce magicamente da un cespuglio per offrirci del “fumo”: ne vedremo gli effetti su un ragazzo che troviamo imbambolato nel suo mondo nel bel mezzo della strada del ritorno.
Nonostante il cielo minacci di farci la doccia da un momento all’altro, allunghiamo decisamente la via verso PAI inerpicandoci per una strada panoramica consigliataci da “Il Francese” del Thai Adventure Rafting e che mi lascia senza parole davanti alla bellezza delle colline e dei paesaggi che ci circondano. Ceniamo da Amadeo, che si rivela non essere all’altezza degli elogi riservatigli dalla fidata Lonely Planet, e ci corichiamo in branda dopo una fugace birra del dopocena. La partenza è fissata per domani mattina alle ore nove: destinazione?
Rafting !

07-08 Agosto 2007 – Fiume PAI

Una forse troppo breve lezione su come comportarsi nel “river” e su come eseguire gli ordini della nostra guida e ci infiliamo nel retro di un pick-up per una buona ora e mezza con destinazione un punto imprecisato sul fiume Mae Nam Pai, o più semplicemente Pai, come lo chiamano anche i locali.
Ancora confuso su come interpretare e reagire ai comandi “right” e “left”, ma senza alcun dubbio sulla reazione per “stop”, conosco Mike, la nostra guida, e il resto dell’equipaggio. A bordo del nostro canotto ci sono Fritz, insegnante svizzero in aspettativa dal lavoro per qualche mese di viaggio e il cui nome cambierà in Spritz ancor prima di imbarcarci, e Ray e Nikki, due Californiani con lineamenti e origini puramente cinesi: non si capisce bene se siano fratelli o fidanzati.

E’ la stagione monsonica ma siamo fortunati e nonostante ciò la pioggia non è ancora scesa a sufficienza da rendere impraticabile o pericoloso il fiume, che si mostra invece adatto a dei principianti, senza negarci però qualche rapida adrenalinica e un’esperienza paesaggistica davvero unica. La Giungla ci avvolge su entrambi i lati ed io mi perdo a osservare alberi “aggrappati” a rocce in bilico sulle sponde del fiume. Avvistiamo qualche scimmia mentre qualcuno giura di aver visto addirittura un pitone e un cinghiale… realtà, fantasia o solo desiderio di suscitare invidia? Non importa ovviamente e si esagera sempre di più… neanche uno zoo regge il confronto alla fine.
Freniamo la fantasia, e il nostro gommone contro le rocce, per aspettare un gruppo di ungheresi che partecipano anche loro ai due giorni di avventura, ma con partenza da un punto differente. Nell’attesa giochiamo con il fiume tuffandoci da una roccia per cercare poi di attraversarlo sfruttando al meglio la forza della corrente e dando qualche sana bracciata. Arrivano gli ungheresi e riprendiamo la discesa del fiume, fermandoci questa vota per rilassarci immersi nelle “hot springs” e tornare bambini giocando e scivolando su una piccola cascata, finendo poi per degenerare in una lotta all’ultimo sangue con lo scopo unico di buttare chiunque in acqua dal gommone alla sua prima distrazione. Affronto le ultime due rapide in acqua, al posto che sul nostro mezzo, nuotando e stando attento a non lasciare l’osso sacro su qualche roccia del fondo.
Passiamo la notte in un accampamento nel mezzo della foresta e che scopriamo essere raggiungibile solo via fiume, eccezion fatta per i pescatori che vivono nella giungla e che impiegherebbero comunque quattro ore per raggiungerci inerpicandosi nella foresta. Il silenzio intorno al campo è totale e non appena cala il sole siamo letteralmente avvolti dalle tenebre. I letti sono poco più di un materassino sopra un pavimento di legno e con tetto di paglia a copertura, ma a sorprendermi è il cibo che le guide preparano direttamente al campo dopo un aperitivo a base di Pop Corn. Una delle guide fa gruppo con noi e ci intrattiene fino a notte tarda con giochi creati con candele e racconti avvincenti di avventure nel fiume: si considera una specie di superuomo tanto che il giorno dopo farà metà del viaggio di ritorno seduto sul tetto della jeep. Una bottiglia di vino che ci siamo portati nello zaino e il whisky portato dagli ungheresi ci aiutano ad allietare la piacevole serata.
Altra giornata e sei ore di rafting per arrivare alla nostra destinazione e ammainare i gommoni sulle sponde del fiume dove le guide smontano abilmente tutta l’attrezzatura e caricandola poi sui carrelli: doccia veloce e si riparte per un improbabile viaggio di ritorno in quattordici su un pick-up con tanto di rimorchio e un bel diluvio che ci aspetta a metà strada. E la guida è sempre sul tetto.
Ceniamo in un barbecue a buffet nel centro del paese dove Lalla, ragazza mora sorridente che lavora nel bar, cerca di spiegarci in inglese cosa possiamo mangiare: tra un’incomprensione e l’altra si unirà poi a noi per andare a ballare al Bipop dove ghiaccio e una bottiglia di acqua diventano i protagonisti della serata.
Le solite cinque ore di dormita e siamo un altro furgoncino ci attende questa volta diretto a Chiang Mai. Raggiungo il luogo di partenza dell’autobus dove trovo già a bordo ad attenderci e Niki, stranamente non seduta in fianco all’inseparabile Ray, che nel frattempo si è scoperto essere nient’altro che un compagno di studi e di viaggio. Colgo l’occasione e mi siedo in fianco a lei. Le curve ci aiutano ad avvicinarci e arriviamo a destinazione abbracciati e con l’idea di rivederci probabilmente fra una decina di giorni sull’isola di Koh Samui.
Mi concedo una fugace colazione mentre attendiamo un secondo pullman che nel giro di sei ore ci dovrebbe portare a Chiang Kong, villaggio di frontiera con il Laos, da dove prenderemo domani un’imbarcazione diretta prima verso il Pakbèng, piccolo villaggio sulle sponde del fiume dove l’elettricità esiste solo di giorno grazie a generatori elettrici, per poi proseguire il giorno successivo verso Luang Prabang, capitale della regione di Louangphabang nel nord del paese. Sono troppo stanco per fare amicizia con i nuovi compagni di viaggio, due irlandesi, due inglesi e due tedeschi: dormirò un po’ per poi scrivere.

10 Agosto 2007 – In navigazione sul Mekong

Sveglia poco dopo le sette. Altro giorno di viaggio, nel senso di spostamento: sette ore di slow-boat da Huay Xai a Pakbèng ci attendono. Da Chiang Khong prendiamo una piccola imbarcazione con destinazione la sponda opposta del fiume: Laos!
Un’accalcata coda ci permette di pagare e ottenere il visto confermando i nostri dubbi riguardo ai 100 bath che ci hanno abilmente sfilato alla guesthouse la sera prima con la promessa che ci avrebbe facilitato la procedura: hanno fatto la cresta. Un pulmino ci porta alla nostra imbarcazione, poco più di una chiatta coperta, che dopo un’estenuante attesa di tutti i circa sessanta passeggeri inizia la sua navigazione sul 12° fiume per grandezza del mondo: il Mekong. Il paesaggio che ci circonda è un verde visto per ora solo sul fiume PAI dove abbiamo fatto Rafting, con qualche sporadica capanna che spunta dalla vegetazione fitta. Dormo per un tempo imprecisato che mi sembra durare ore, ma che probabilmente sono solamente una decina di minuti: ho abbandonato l’orologio sulla mia scrivania a Bergamo dieci giorni fa prima di partire. Una bambina di soli pochi anni gira sorridente per la barca con una birra su di un vassoio: è troppo tenera e compro una birra. Leggo un paio di pagine del libro che viaggia ancora vergine con me da qualche tempo, ma dura poco. Sento un gruppo di spagnoli in fondo alla barca oltre il motore assordante, impegnati a fare “fiesta”. Mi unisco a loro per un paio d’ore con qualche birra e un pacchetto di sigarette: sono sempre gli amichevoli spagnoli conosciuti nel periodo trascorso nell’amata Madrid e nei viaggi nel paese dei tori. Torno dai miei compagni che po’ annoiati dal viaggio stanno anche loro ragionando di affittare una “speed-boat”per l’indomani: sembra essere più divertente e impiega la metà del tempo. I costi? Dovrebbe trattarsi di un due o tre euro a testa in più, lo scopriremo stasera.

11 Agosto 2007 – da Pakbèng a Luang Prabang

La notte a Pakbèng, villaggio a metà strada nella navigazione lungo il Mekong, è stata abbastanza tranquilla e dedicata a una cena con tre ragazze, un’irlandese e due inglesi presso un ristorante, dove insegno parolacce in italiano al proprietario. Riusciamo a organizzare anche il trasporto con la “fast-boat”. Sveglia presto, anche per la mancanza di corrente e conseguente caldo tropicale derivato dai ventilatori immancabilmente immobili senza energia. Facciamo colazione e ci dirigiamo verso le “fast-boat”. Per arrivarci una discesa lungo una collinetta fangosa: immancabilmente il primo di noi a scendere, Mattia, finisce con tanto di zainone in pieno nel Mekong scatenando l’ilarità nostra e di un folto gruppo di locali accorsi per lo spettacolo. Indossati caschi e giubbotti salvagente, che dobbiamo chiedere direttamente all’autista all’imbarco, la barca parte veloce schivando tronchi e rocce affioranti con un’abilità che solo gli anni possono dare. Noto sulla superficie dell’acqua mulinelli enormi che sicuramente non esiterebbero a risucchiare un nuotatore. Il paesaggio scorre veloce in mezzo alla foresta e ai villaggi che in continuo affiorano dal verde della natura. Non esistono strade a collegarle con il resto del mondo, solo questa enorme autostrada d’acqua. Facciamo un paio di soste per fissare l’albero dell’elica che sembra proprio volere lasciarci a piedi. Sulla barca insieme con noi Jenny, la ragazza irlandese, e una coppia d’italiani, Lorenzo e Alessandra. Arriviamo a destinazione dopo quattro ore dove un tùk-tùk, sicuramente d’accordo con il pilota della barca, già ci attende. 20.000 kip a testa e ci ritroviamo davanti alla porta dell’ostello consigliato dalla Lonely.
Luang Prabang è poco più di una via, pranziamo e finalmente riusciamo a fare una laundry appena fuori dall’ostello.

12-13 Agosto 2007, da Luang Prabang (Laos) a Hanoi (Vietnam)

Ceniamo al “Cafè de Arts” dello zio Boe e continuiamo la serata al H.I.V.E. con alcune ragazze inglesi e irlandesi conosciute nel pomeriggio. Non dura molto e come consuetudine a mezzanotte il bar chiude e dobbiamo uscire: a Vientiane mi dicono addirittura esserci il coprifuoco.

L’aereo è nel pomeriggio per cui ci accordiamo per un trasposto verso l’aeroporto con King Kong, il gestore della guesthouse Sonchittana dove alloggiamo. Dedichiamo la mattinata per visitare le “vicine” cascate: si scopriranno poi essere a 24 km, distanza percorsa su di un furgoncino che è poco più di un tùk-tùk. A bordo siamo noi tre con Lorenzo e Alessandra, Jenny e Ann, ragazza conosciuta la sera prima. I quaranta minuti volano e lo spettacolo unito al bagno nelle pozze rinfrescanti ripagano la nostra attesa.

Ore 17.50: un aereo bielica con noi a bordo atterra a Hanoi.
Messi in guardia dalla Lonely usciamo dall’aeroporto e riusciamo a districarci tra i mille tassisti e finti tali che ci assalgono offrendoci un trasporto. Alla fine della contrattazione basteranno 150.000 dong, pedaggio sul ponte incluso, per arrivare in centro città dove ad aspettarci c’è ovviamente un amico dell’autista per offrirci una sistemazione per la notte. Rifiutiamo e andiamo in cerca delle guesthouse e alberghi già provati e suggeriti dalla nostra guida. Al terzo tentativo troviamo finalmente una comodissima stanza tripla libera con aria condizionata presso il “Prince 79” per l’onestissimo prezzo di 15 dollari, in tre.
L’impatto con Hanoi è traumatico: i motorini sono ovunque e passano dappertutto. Sembra che non esista alcun codice della strada ad eccezione dell’unica regola fondamentale: suonare il clacson sempre e comunque! In un’oretta siamo già storditi, e nel giro di 24 ore staremo già sognando il momento della partenza da questo formicaio di motorini diretti verso la baia di Halong, a nord ovest di Hanoi.
Ci svegliamo ed essendo in una grande città ci accorgiamo ben presto che risulta di una certa utilità conoscere il giorno della settimana: Lunedì. Prendiamo, infatti, un taxi per raggiungere il Mausoleo di Ho Chi Min che si trova al lato dell’omonimo Museo, ma, non appena arrivati a destinazione, il tassista pensa bene sia arrivato il momento di avvisarci che si tratta del giorno di chiusura di entrambi, museo e mausoleo. Si propone ovviamente di accompagnarci da qualche altra parte nella città: gli paghiamo la corsa aggiungendo un sorriso per la fregatura ricevuta e ci accontentiamo di vedere una “pagoda” unica nel suo genere in quanto poggiata su una sola “gamba”.
Boccheggiamo a zonzo per la città per ore fin a vedere le lancette dell’orologio indicare finalmente cinque minuti alle venti, orario in cui scopriamo che i biglietti per il tradizionale spettacolo delle marionette sull’acqua sono esauriti e che si può riservare solo per il giorno seguente, saremo già ad Halong Bay. Distrutti da questa infausta notizia, plachiamo i nostri animi con una cena abbondante presso il Garden Vu?n Hanoi, sfizioso ristorante vietnamita, cui corrisponderà poi anche uno “sfizioso” e salato conto: ben 12 $ a testa! Un milk-shake sulla terrazza di un bar nel centro della città risucchia le nostre ultime energie vitali dirigendo inesorabilmente i nostri passi verso il nostro albergo.
La notte trascorre questa volta tranquilla senza la necessità delle candele cui siamo stati costretti ieri notte a causa di un’interruzione di corrente: avete mai fatto la doccia al lume di candela? Amazing, dovete provarlo!

14 e 15 Agosto 2007, verso Halong Bay (Vietnam)

Stasera compleanno di Mattia.
Tre ore di autobus e sbarchiamo al porto di Halong City che, inaspettatamente, sembra essere ancora più affollato di Hanoi City. Le barche sono tutte in legno ed hanno un aspetto che ricorda più delle chiatte da fiume più che barche in grado di affrontare il mare, che qui scoprire qui essere completamente piatto e calmo, grazie alle centinaia di pinnacoli e agli scoscesi isolotti verdi che popolano tutta la baia: panorama unico e singolare. Facciamo un primo stop per visitare delle grotte, il cui ingresso è raggiungibile salendo lungo una scalinata ricavata nella roccia e nascosta alla vista esterna da piante e fronde che ci avvolgono lungo l’ascesa. La grotta è davvero enorme e, oltre alle svariate rocce che la guida mostra di volta in volta come somiglianti a Buddha, animali vari e organi riproduttivi maschili giganti, sembra davvero esserci una vera tartaruga gigante fossilizzata.
Prima di tornare in barca la guida decide di sfinirci propinandoci una mezz’ora buona di kayak con cui entriamo a ritmo di pagaiate in un bacino d’acqua racchiuso all’interno di uno scosceso pinnacolo e accessibile solo tramite un passaggio scavato dall’acqua alla base di una parete rocciosa. Bellissimo ambiente peccato solo che la guida ci sconsiglia fortemente di fare il bagno a causa delle varie specie di meduse che lo popolano. Riusciamo comunque a rendere la cosa divertente e farci odiare da tutti schizzando con l’acqua chiunque incrociamo sulla strada del ritorno e tornando ovviamente fradici sulla barca. I frutti dell’ignoranza si fanno subito vedere e facciamo amicizia con tre americane con cui passeremo tutto il resto della navigazione: Alicia, Lauren e Pammy. C’è un attimo di silenzio di troppo quando, seduti a cena insieme, la più carina delle tre ci dice che settimana prossima la raggiungerà il marito: tutte le fantasie e piani svaniscono dalle nostre menti in un “Pufffff” soffice soffice.
Guardo con una certa diffidenza il granchio gigante, piatto principe di questa cena a base di seafood (pesce), che ancora intero giace sul mio piatto. Lo guardo, lo giro e lo rigiro fin quando una cameriera mi nota e si offre gentilmente di farmi vedere come si apre e mangia. Il verdetto è decisamente niente male, ma nonostante tutto continuo a preferire di gran lunga la carne.
A bordo vige una strana regola, direi di business più che di sicurezza: “Non si possono consumare bevande al di fuori di quelle comprate on-board”, pena una multa da uno a cinque dollari. Risolviamo facendo un aperitivo nella nostra stanza noi sei bevendo una bottiglia portata da Mattia per festeggiare il suo compleanno e rincarando la dose con qualche birra comprata di nascosto da una barcaiola ambulante. Vinto l’indugio iniziale continuiamo la serata sul ponte superiore bevendo fino a tarda notte, illuminati dalla luna e dalla luce delle candele, Whiskey, birre e “special water” (nient’altro che una bottiglia d’acqua furtivamente riempita di Vodka, liscia ovviamente).
Facciamo sparire negli zainoni tutti i vuoti, nell’attesa di sbarcare a Cat Ba Island. L’arrivo in porto è incredibile: le barche in arrivo si infilano in mezzo tra le altre senza alcuna regola o precedenza, spingendosi e cozzando pesantemente una contro l’altra. Dopo un’oretta riusciamo finalmente a toccare terra e salire su un autobus che ci porta un po’ in giro per l’isola, imbarcandoci poi su un’altra barchetta diretta a una nuova grotta nella quale ad attenderci c’è anche un dubbio concerto di un ragazzino che dice di saper suonare le rocce, con tanto di disturbo di fondo nella cassetta audio registrata… Pranzo ancora una volta a base di seafood: shit!
Decidiamo all’unanimità di ammutinare tutti e sei il gruppo turistico che prevede non so quali altre visite in una maratona intorno all’isola e ci rechiamo con delle “moto-taxi” in un resort poco lontano dedicando il pomeriggio al completo relax, a base di bagni nel mare e lettura sulla spiaggia con cocktail al lato.
L’hotel dove alloggiamo non è niente male, e il bar in terrazza gli fa guadagnare punti permettendoci di sorseggiare con un cocktail all’aria aperta dopo cena prima di inoltrarci nella cittadina alla ricerca di un po’ di night life. Troviamo solo una triste discoteca praticamente deserta, dove resistiamo solo un’oretta prima di rincasare. La sveglia è fissata per le ore 7.30 per la colazione e partenza alla volta di Hanoi: bus, barca, bus. Il mio inglese è dubbio e le compagne di viaggio parlano veloce, ma si prestano pazientemente a ripetere e a spiegarmi il significato di parole come Fly Diving e Paragliding (paracadutismo): le aggiungo tra la lista delle cose da fare…

16 – 19 Agosto 2007 – Hanoi2, Kuala Lumpur

Torniamo da Halong Bay nel pomeriggio e ceniamo con le nostre nuove compagne di viaggio presso il ristorante “Mediterraneo”, passando una piacevole serata degustando finalmente un buon vino rosso.
La giornata successiva è dedicata a un po’ di shopping e mi riscopro contento quando finalmente ci rifugiamo nella tranquillità del teatro per lo spettacolo dei “pupazzi sull’acqua”: nonostante non capisca una parola della narrazione delle voci fuori campo, apprezzo e ammiro lo spettacolo unico del suo genere.

Un aereo questa volta a propulsione mi fa cambiare stato e fuso orario portandomi fino all’aeroporto di Kuala Lumpur. In un’oretta circa un taxi ci porta in città presso un hotel in China Town. Doccia veloce e saliamo sulla monorotaia in direzione Petronas Twin Towers. C’è ancora la luce ed entriamo nella torre numero 2 per chiedere informazioni circa il tour per visitare le torri. Una prima ragazza ci avvisa che dobbiamo tornare la mattina successiva a un orario per noi improponibile anche con il maggiore degli sforzi: le 8.30! Tutto questo per trovare i biglietti e tornare poi all’orario prestabilito per la visita. Ci aggiriamo un po’ per il museo quasi rassegnati a non salire sulle Petronas quando un ragazzo dello staff mi avvisa di un tour in partenza a breve cui è possibile unirsi a causa di posti vacanti. Il giro non è niente di eccezionale, non si raggiunge la cima, l’ottantesimo piano, ma si trascorre unicamente un quarto d’ora sul ponte di collegamento fra le due strutture e situato a quarantasei piani sopra il suolo. Dopo le classiche foto di rito ci concediamo una buona cena a base di menu messicano ai piedi delle torri godendoci anche lo spettacolo di questi due grattacieli illuminati nella notte.
Provati dalla cena, siamo tentati di rincasare quando un tassista, una volta caricatoci a bordo, ci convince a tenere duro e ci porta al Beach Club- Un bel locale frequentato da moltissime ragazze splendide che scopriremo però in breve essere lì a “lavorare”. Prendiamo un altro taxi verso casa ma ancora una volta siamo avidi di divertimento e Adam, il tassista, inverte l’auto a metà strada per portarci allo “Zoe”, una discoteca “normale” dove i ragazzi e le ragazze si cercano e non si vendono.

20 Agosto 2007 – Koh Samui

Sveglia per fare le valigie e per una maratona con l’obiettivo di vedere a piedi la città fin verso sera, quando saliamo su di un treno a cuccette che ci porterà fino a raggiungere la mattina dopo la stazione di Hat Yai, subito dopo una breve sosta sul confine per le pratiche di immigrazione. Scendiamo dal treno e un procacciatore di clienti ci trova in un batter d’occhio gli ultimi tre posti a bordo di un pulmino con annessi anche i biglietti per il ferry (traghetto) con destino Koh Samui. L’autista del pulmino è spericolato e percorre la distanza che ci separa dall’imbarco in meno di tre ore, nonostante un diluvio che ci accompagna per buona parte del viaggio e che annulla completamente la visibilità. Oltre a noi sul bus una decina di ragazze Thai che, vista la divisa e il velo che portano sul capo, direi essere delle religiose: sorridono e parlottano quando ci vedono per la prima volta.
Koh Samui si rivela immediatamente “un carnaio”, una Rimini alla Thailandese. Chiaramente abbiamo scelto la zona più ricca di divertimenti e con la peggior night life dell’isola: la spiaggia di Chawang. Gli ormai celebri Go-Go bar sono ovunque e ogni volta che passiamo davanti a uno di essi, un’orda di ragazze chiede a gran voce la nostra compagnia.
Dopo varie peripezie e chilometri con gli zaini in spalla riusciamo finalmente a prendere possesso di due Bungalow davvero niente male presso il Coconut Resort. Noleggiamo due motorini e, via e-mail, mi accordo con Niki, l’amica californiana conosciuta a Pai, per incontrarci al suo albergo, dove alloggia con Ray e una coppia di amici. Finiamo per passare una bellissima notte insieme fino al momento della loro partenza alle 5 a.m. del mattino dopo. Solo qualche ora di sonno e non resisto al richiamo del sole e della tanto attesa tintarella in spiaggia.
Renato è ancora in stato comatoso dalla serata quando, a metà pomeriggio, Mattia ed io partiamo in sella ai due motorini noleggiati per un giro dell’isola alla ricerca dell’ennesima cascara e di qualche spiaggia isolata. Dalla mappa individuiamo la cascata con un salto maggiore di 80 m: mezz’ora di motorino abbondante e giungiamo al parcheggio delle cascate Na Muang Falls 2 (esistono anche le numero 1, di salto minore e forse anche più spettacolare, e sicuramente più facili da raggiungere). Sistemiamo i bolidi e scopriamo di dover camminare una quindicina di minuti per raggiungere le cascate. La strada sale gradatamente nel sottobosco e non è messa male finché non raggiungiamo un punto da cui è visibile quella che, nell’immaginario collettivo, non corrisponde esattamente all’immagine di cascata come salto netto d’acqua nel vuoto: si tratta in questo caso più che altro di una discesa di acqua su un pendio di rocce. Non soddisfatti, e convinti dell’esistenza di qualcosa di più, decidiamo di proseguire verso e intraprendere, indossando solo infradito e “chapa merda” (come ormai chiamano le mie comodissime calzature da viaggio), un sentiero che sale nel bosco con tanto di cima cui aggrapparsi nei punti più critici. Arriviamo, ma dove arriviamo? Madidi di sudore capiamo che non c’era niente per cui valesse la pena affrontare tale impresa: nessun panorama né salto d’acqua, solo lo stesso scenario di 70 metri più sotto. Delusi dalle cascate decidiamo di fare un giro nel mercatino della zona di Hat Lamai, ricevendo i soliti richiami dalle ragazze dei Go-Go bar che anche qui costeggiano la strada e scoprendo poi dei ristorantini spettacolari che si affacciano direttamente sulla spiaggia.
Recuperiamo finalmente Renato e, dopo una breve cena e una birretta in un bar della via principale, scopriamo il bar più trendy della zona proprio sulla spiaggia del nostro resort. Riusciamo giusto a farci un salto e ad essere circondati da bambini che vedono collanine di ogni tipo, prima che il sonno abbia la meglio su di noi e ci porti per l’ennesima volta in stanza a preparare gli zaini per la nuova tappa, che ci porterà a prendere un traghetto domani a pranzo verso l’isola paradiso dei sub: Koh Tao.

23 Agosto 2008 – Koh Tao (scrittura post ritorno.)

Questa isola rappresenta un vero paradiso, ancora vergine e immerso in una tranquillità che risulta speciale anche al confronto con le altre isole della Thailandia visitate. La difficoltà principale sembra essere la ricerca di una sistemazione, in quanto la maggior parte delle guesthouse e hotel affittano le stanze congiuntamente alla prenotazione di un corso di sub.
Un tramonto sul mare colora cielo e nuvole di rosso dandoci il benvenuto.

Pranziamo sulla spiaggia e scegliamo direttamente da un banchetto a forma di barca cosa farci cucinare sulla griglia come cena. Facciamo due passi lungo la spiaggia raggiungendo il “Lotus”, bar principale dell’isola dove un ragazzo ricoperto di tatuaggi intrattiene la serata di un centinaio di persone facendo roteare e lanciando in aria un bastone dalle estremità infuocate. Nonostante l’atmosfera si stia riscaldando e il programma sia già definito con una festa in un altro locale dell’isola, abbandono i miei compagni a metà serata pensando alla sveglia l’indomani alle 7 a.m. per la prima immersione dopo cinque anni: obiettivo il brevetto Padi Advanced Water Diver.

Le giornate trascorrono veloci sull’isola tra immersioni, bagni, libri in riva al mare e tramonti da mozzare il fiato. Conosciamo due ragazze israeliane cui insegniamo un gioco che è stato fondamentale per la mia crescita durante la mia adolescenza: “Merda”. Stringiamo amicizia anche con un’altra coppia di ragazze, Alma e Ali, che ci danno qualche dritta riguardo all’isola di Koh Pha-Ngan, nostra prossima destinazione, ed in particolare su un’isolata spiaggetta dell’isola, dove ci consigliano di soggiornare presso i bungalow di un ragazzo diventato loro amico.
Provo l’incredibile esperienza di immergermi nel buio della notte, discendendo metro dopo metro con la sola luce prodotta da una torcia elettrica che, una volta raggiunto il fondale, spengo contemporaneamente al mio istruttore per ritrovarci entrambi nel buio più assoluto a fare capriole a 18 metri di profondità. Rimando invece fino all’ultimo giorno la temibile “immersione profonda” a 32 metri, profondità alla quale il cervello umano, sotto l’effetto combinato di pressione e aria compressa presente nella bombola da sub, subisce il fenomeno conosciuto come ”avvelenamento da Azoto” e rallenta notevolmente la propria attività e i ragionamenti diventano lenti e difficili.
L’ultima immersione, dedicata al controllo dell’assetto, riesce invece a spaventare un po’ tutti, allievi e istruttori, e soprattutto Adrian, il mio master diver che mi ha accompagnato lungo tutto il percorso verso il brevetto. Ci immergiamo insieme per fare alcuni esercizi dedicati a imparare a stabilizzare il proprio assetto subacqueo attraverso il proprio respiro; ci scambiamo bombole e attrezzature sul fondo per poter prolungare la durata dell’immersione e sfruttare il minore consumo di ossigeno di Adrian, dovuto al suo allenamento quotidiano, e alla fine siamo costretti a risalire in superficie da un punto diverso da quello iniziale di discesa. Adrian prende improvvisamente una decisione avventata e si immerge in solitaria per recuperare l’attrezzatura lasciata sul fondo. Nel risalire viene assalito da un crampo e dalla stanchezza, effetto di una notte insonne nei bar dell’isola e della stupida decisione di re immergersi da solo. Quando riemerge gli viene immediatamente somministrato ossigeno mentre la barca si fionda a tutta velocità verso il porto e il centro medico. E’ andata bene e la mattina dopo lo troverò al mio risveglio già attivo e intento a preparare le carte per il mio brevetto.
Con un po’ di rammarico, e qualche dubbio per lasciare Koh Tao saliamo su un catamarano a motore diretti verso l’isola di Koh Pha-Ngan.

28 Agosto 2007, Full Moon Party day in Koh Pha-Ngan

Mi ritrovo a Koh Pha-Ngan. Oggi è il full Moon party day e una febbricitante attesa non mi concede quel sonnellino cui ho bisogno. Sono le ventuno e la musica è già alta anche nel Sunview RainBow, il nostro resort, situato a una mezz’oretta di strada dalla spiaggia di Hat Rin nel sud dell’isola dove si svolge il full moon Party. La sistemazione, consigliataci da Emma, amica conosciuta in occasione di una “Deep Dive” a 30 metri di profondità, è ottima: i bungalow sono spartani ma molto accoglienti e tutti dotati di amaca montata su di una veranda con vista sull’oceano.
La giornata di ieri è stata dedicata, una volta sbarcati sull’isola e sistemati i nostri bagagli, a una passeggiata lungo la spiaggia con le onde dell’oceano da un lato e le palme cariche di cocchi dall’altro. Ci sorprende, nel bel mezzo della camminata, uno dei tramonti più belli che io abbia mai visto inchiodandoci su delle rocce nei pressi di un resort da 1500 € a notte, a cui nonostante tutto preferisco decisamente i nostri bungalow, molto più distanti tra di loro e immersi nella loro pace. Ceniamo in un ristorante sulla spiaggia vicino a poca distanza dai nostri bungalow con l’idea di risparmiare le energie per la serata successiva e il full moon party.
Ma torniamo a oggi, la sveglia alle ore 9 per fare colazione e salire in sella ai nostri due scooter con cui percorriamo più sterrati che strade asfaltate, visitando e nuotando in un paio di spiagge “da rivista”. Mentre ci avviamo sulla strada delle cascate chiamate con lo stesso nome dell’isola, scopriamo che sono in secca a causa delle ancora scarse piogge: invertiamo il motorino e ci inoltriamo in perlustrazione verso la lontana spiaggia di Hat Rin, all’estremità sud dell’isola e location del Full Moon Party di questa sera. L’atmosfera è ancora tranquilla e nulla farebbe pensare a nient’altro di una bella ma pur sempre semplicissima spiaggia, se non fosse per i banchetti già in preparazione con scritte inneggianti al “Best, Biggest, Craziest Basket here” (Basket=secchiello). Ci siamo oramai abituati all’idea che in Thailandia si bevono i cocktail in secchielli tipo quelli con cui da bambini giocavamo in spiaggia… e in cui ora, da bravi bimbi cresciutelli, beviamo: logico no? In Spagna “El Botellon”, qui il “Bucket”. In Italia dobbiamo trovare qualcosa di ancora più grande.
La strada da e per Hat Rin è tutta un sali scendi con pendenze che arrivano oltre il 20 % e che, se da sobri riusciamo ad affrontare senza cadere o impennare solo impegnandoci, non immagino pensare di farla dopo qualche Bucket…Opteremo quindi per un taxi che ci preleverà più tardi direttamente alla guesthouse.

Ore 20.30: è ora di andare in doccia e raggiungere gli altri per cena e un paio di drink prima di farci scorrazzare fino alla festa della luna.

P.S. sull’isola di Koh Pha-Ngan consiglio a tutti coloro che vogliono girare l’isola in motorino (fortemente consigliato), di tenere d’occhio oltre alla sabbia sul manto stradale, anche le temibili noci di cocco! Oggi ne è caduta una dall’albero proprio davanti al mio motorino mentre passavo… Mi ha mancato per un solo metro.

29 Agosto 2007 – Full Moon Party

Questa mattina mi sono svegliato con l’ultimo bagno nell’oceano, fra poche ore salpa il traghetto per Chumphon da dove un bus ci attende per partire alla volta di Bangkok, ultima tappa di questo viaggio.
So che un resoconto sul tanto atteso Full Moon Party: sicuramente qualcosa di unico e che vale la pena vivere una volta. Come da programma ci rechiamo alla festa dopo cena prendendo prima un Sawyree, una specie di pulmino aperto, che per 100 bath a testa ci porta dalla guesthouse fin giù al porto da dove un secondo più piccolo “autobus” ci traghetta per soli 50 bath fino alla spiaggia della festa. Tutti sono costretti a fare questo doppio passaggio che al ritorno si trasformerà in una delle svariate strategie che i guidatori e tassisti locali utilizzano per tentare di strappare qualche soldo in più, cercando di farvi pagare un prezzo per la destinazione finale, e senza dirvi che sarete invece scaricati ovviamente al porto.
Pur non essendo nel periodo di massimo afflusso, che va da Dicembre a Febbraio, la spiaggia della festa è già ricolma di giovani al nostro arrivo ed ogni centimetro del perimetro è occupato da banchetti che vendono i famosi “secchielli”, di tutti i colori e tipi di alcolico al loro interno. In un batter d’occhio perdo tutti i miei compagni di viaggio, ma tutto il mondo sembra essere su questa spiaggia ed incontro di nuovo due delle ragazze con cui con cui abbiamo visitato Halong Bay ed Ann, la ragazza tedesca di Luang Prabang. Vago al ritmo di musica da una parte all’altra della spiaggia fino verso le 6.30 del mattino seguente, tentato di tanto in tanto dalla “zona riposo”: un recinto in mezzo alla spiaggia allestito dagli organizzatori della festa per permettere a chi non ce la fa più di riposare sotto la protezione di alcune guardie. Il sole è sopra l’orizzonte ed il cielo ormai chiaro quando inizio la grande impresa per il ritorno incolume al mio bungalow. Dopo aver chiesto invano un passaggio a due o tre mini-bus, riesco finalmente a trovare la zona di Hat Rai da dove partono i Sawaree e a contrattare un passaggio fino al mio hotel per 200 bath: gli dico ovviamente che pagherò a destinazione. Come prevedibile mi scarica invece al porto come tutti gli altri e mi ritrovo a contrattare l’ennesima tratta verso casa.

30 Agosto 2007 – Verso Bangkok, verso casa…

Mi sveglio ed il sole è già alto nel cielo del pomeriggio. Decido quindi di concedermi il resto della giornata per un’unica impegnativa attività: dondolarmi sull’amaca che dal portico del mio bungalow regala una stupenda vista sull’oceano. Guardo il cellulare e mi rendo improvvisamente conto che è già la mattina del 30 di Agosto ed il momento di partire per la nostra ultima tappa, prima di salire a bordo del volo di ritorno per l’Italia. Prima di prendere il traghetto che ci porterà a Chumpon, dove ci aspetta un pullman per Bangkok, faccio un giro in motorino nella zona del porto di Koh Pha-Ngan per un paio di acquisti tra cui un’amaca che con il suo cullare mi ha ormai stregato. Lungo la strada trovo finalmente e inaspettatamente risposta a un interrogativo che da tutta la vacanza aleggia nella mia testa: ma come li raccolgono tutti questi cocchi? Trovo la risposta a un paio di chilometri dalla mia destinazione: noto a bordo della strada un uomo, in mano due funi che salgono in alto verso un paio di palme da cocco. Guardo meglio e noto all’altro capo di ognuna delle due cime, a circa una decina di metri di altezza, una scimmia che fa ruotare le noci di cocco fino a farle staccare e rovinare pesantemente a terra. Esaurita una pianta, la scimmia salta molto semplicemente sulla successiva, che il padrone da terra gli indica.
Siamo oramai sul traghetto che, passando davanti all’amata isola di Koh Tao, ci tortura nell’indecisione tra il proseguire a bordo verso la nostra destinazione o scendere d’impulso e fermarci in cerca di un lavoro, magari seguendo l’esempio di Chiak, ragazzo tedesco che, giunto sull’isola per una vacanza di un paio di settimane, si è poi fermato per diventare Master Diver e iniziare a fare delle immersioni subacquee la sua professione tra un libro e l’altro all’ombra di una palma da cocco. Brutto eh?

02 Settembre 2007– On the way back

Il viaggio fino a Bangkok esaurisce le nostre energie e la mezz’ora di ricerca di un albergo con gli zaini in spalla alle due di notte ci dà la stoccata finale. Ci svegliamo in un albergo della zona di Chinatown e la prima preoccupazione è quella di prendere un taxi con gli zainoni e andare in cerca di un nuovo albergo: alloggeremo al Miami Hotel nei pressi della fermata Nama dello Skytrain.
Sebbene città caotica, Bangkok, si rivela già più vivibile di Hanoi. Al traffico inteso causato dal numero troppo elevato di Taxi, spesso vuoti, si aggiunge uno skytrain sopraelevato che vanta per ora solo due linee per niente capillari ma che rappresenterà comunque il nostro principale mezzo di trasporto, dopo una prima esperienza con un taxi fermi immobili nel traffico per una buona mezz’ora.
Decidiamo di darci agli acquisti e ai souvenir facendoci inghiottire dai sei piani del gigantesco MBK (acronimo di Mah Boon Krong). Ci facciamo stregare dal quarto piano, dove si trovano tutte le bancarelle di elettronica: iPod (originali e soprattutto fasulli come l’i-Ping che decide di comprare Renato), cellulari (nuovi e di seconda mano), consolle di gioco, dvd, musica e ogni tipo di articolo tecnologico. Prendiamo subito gusto nella contrattazione di qualsiasi oggetto e nel chiedere a raffica la domanda magica a un’infinità di bancarelle: “Is that your best price?”. Un iPod da nano otto giga: da un prezzo di 9690 bath scoviamo una bancarella che ce lo cederebbe per “soli” 8600 bath (8600/46 = 187 €), decisamente al di sotto del prezzo di vendita in Italia. Siamo ormai affetti da acquisto compulsivo e al terzo piano contrattiamo lampade, incensi, treppiedi per macchine fotografiche, zaini e usciamo dal MBK carichi di sacchetti alle otto di sera, solo perché cacciati a causa dell’orario di chiusura.
Ci rechiamo finalmente in albergo, ma prima di salire in camera decido di recarmi al 7 Eleven, lontano solo un centinaio di metri, per prendere qualcosa da bere. La strada è piena di bancarelle e sono colpito da un nuovo attacco: arrivo in stanza con un nuovo sacchetto e 900 bath in meno. E’ il contagio! Non potremo fare niente per evitare di tornare nello stesso identico centro commerciale anche il giorno successivo.
Sebbene stremati dalle serrate contrattazioni non possiamo comunque fare a meno di uscire per cenare e andare a ballare. A mezzanotte i ristoranti che troviamo sono tutti chiusi e riusciamo a malapena a farci fare un cheeseburger in un bar dove quattro giocatori si atteggiano in un torneo di biliardo circondati da un esercito di go-go girls. Sono le 2 a.m. e la serata è per noi solo agli inizi: ci rechiamo presso un locale un po’ elegante che sta però chiudendo, come la maggior parte dei locali notturni a questa ora. Un ragazzo stra-ubriaco, di cui non riesco a capire la nazionalità, ci consiglia di andare allo “Spicy-Club”. Ci passeremo tutta la nottata perdendo ognuno le tracce degli altri e ritrovandoci poi tutti solo in albergo.

01 Settembre 2007– The last last day

Mi sveglio presto con la consapevolezza che si tratta dell’ultimo giorno… e con un buon mal di testa nascente frutto delle poche ore di sonno e dell’alta quantità di alcool ingerito la sera prima. Facciamo scandalosamente colazione con un pranzo da MacDonald e prendiamo lo Skytrain fino al mercato di Chatuchak Weekend Market. Il caldo è soffocante e gli odori intensi ci colpiscono non appena imbuchiamo il primo corridoio circondato di negozi. Vendono qualsiasi tipo di mercanzia e a prezzi decisamente più economici di quelli che si possono strappare negli altri negozi della città. Non fatevi ingannare dalle etichette con i prezzi e contrattate serratamente anche qui.
Lo shopping compulsivo torna ovviamente a colpire e mostra tutti i suoi sintomi: occhi pallati roteano fulmineamente in tutte le direzioni, analizzando tutti gli scaffali, ricercando e annotando gli articoli interessanti, il tutto associato ad un incremento continuo nel numero e peso dei pacchetti nelle mani del soggetto contagiato.
Giriamo senza logica solo una piccola parte del mercato e dopo tre ore siamo nuovamente a bordo dello Skytrain questa volta diretti però verso il National Stadium, nei pressi del MBK. Prendiamo in taxi diretti al palazzo reale (120 bath in tre) per rimanere imbottigliati nel traffico una mezz’ora e realizzare, una volta a destinazione, che il caldo è insopportabile per visitare i templi e camminare sotto il sole. Prendiamo quindi un traghetto sul fiume fino alla stazione successiva più vicina dello Skytrain (meno di 15 bath a testa): solo il fiuto ormai sviluppato per le fregature ci evita di pagare 200 bath per dei biglietti che ci vengono proposti al banco informazioni vicino all’imbarco, basta chiedere a un paio di persone e scopriamo che il biglietto in realtà si fa direttamente a bordo.
E’ ora di cena e la Lonely ci guida alla fine della Soi 2 di Th Sukhumvit, presso il ristorante dell’Atlanta Hotel che dovrebbe rispettare la tradizionale cucina thailandese. Il ristorante è deserto, a parte noi tre e una coppia, e quello che subito ci colpisce è la peculiarità di questo ristorante: il suo carattere moralista. Oltre ai cartelli posti all’ingresso ed apertamente schierati contro i “turisti del sesso”, all’inizio di ognuna delle tre copie del menu del ristorante due pagine dichiarano apertamente e senza giri di parole lo schieramento del’albergo e incita a lasciare una mancia. Un po’ divertiti e con la spada della moralità che incombe su di noi lasceremo della mancia, dopo aver diviso con Renato degli ottimi noodles al pollo e un beef dryed curry.
Siamo davvero tre zombi che camminano e concludiamo così la nostra ultima serata thailandese, percorrendo tra le bancarelle la strada verso l’hotel.

02 Settembre 2007– On the way back home

Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato in fretta ma a essere sincero pensavo ci avrebbe messo un po’ di più. Più di un mese è passato dalla partenza, trentacinque giorni e se guardo indietro nella memoria molti dettagli sono già annebbiati dal tempo.
Cinque stati, quindici località tra la montagna e il mare. Decine di persone di nazionalità diverse e tanti tanti momenti ed esperienze uniche da ricordare.
L’impressione degli ultimi giorni trascorsi a Bangkok è stata di leggera nostalgia di casa, di un luogo fisso e in qualche modo un po’ mio, di amicizie e incontri che si ritagliano per conoscersi meglio uno spazio un po’ più lungo di una sola notte o di un paio di giorni. Ma appena salito sull’aereo queste sensazioni lasciano immediatamente il posto alla realizzazione che questa grande avventura in realtà è già finita e che i trentacinque giorni tanto attesi e che tanto lunghi sembravano, già appartengono al passato. Un bilancio dell’esperienza: sicuramente indimenticabile sia per i luoghi che per i compagni di viaggio, quelli incontrati per strada e quelli partiti con me, i cari “Arnold” e “Narco” con cui ho diviso ogni momento e giorno.
Sicuramente la Thailandia vince su tutto: paradisi nella giungla e sulle isole, donne, cordialità, cultura e usanze che sembrano così diverse dalle nostre, ma alla fine non lo sono neanche troppo. Un viaggio che consiglierei a tutti, qualsiasi cosa cerchiate: dalla caotica e mondana spiaggia Cewang a Koh Samui, fino all’abbandonata Ao Hin Kong di Koh Pha-Ngan, o alla giungla che circonda il piccolo villaggio di Pai nel nord del paese. Ci sono posti ed esperienze speciali che non si possono trasmettere con un semplice racconto, ma che bisogna vivere e ricordare. Per me essi sono molteplici in questo viaggio, così come la cena sotto le luci delle Petronas Towers, il bungalow in riva al fiume Pai, l’immersione notturna a Koh Tao e quella tra gli squali, le cascate di Koh Samui e il bagno in quelle di Luang Prabeng, il giro in motorino al tramonto nei dintorni di Pai, sedere sotto la pioggia monsonica su una barca a zonzo per Halong Bay, gli attraversamenti della strada a Hanoi, la biciclettata la sera di Ayuthaya tra i templi illuminati, il tramonto di Koh Pha-Ngan e i noodles Thailandesi. Potrei riempire pagine e pagine con questi posti, momenti, esperienza, ma il significato è uno e solo uno un consiglio: Viaggiate! Ritagliatevi del tempo, uscita dalla ruota che gira, prendete uno zaino e un biglietto aereo.
“Il treno di terza classe da Bangkok verso Hayuttaya”.
Non c’è nessuno che parte con te? Tanto meglio, ancora di più sarà la gente che incontrerà e conoscerai per strada e il legame che si creerà con loro ancora più forte. Un mese fa ero spaventato da viaggiare da solo all’avventura, ho incontrato tante persone che lo fanno, e non erano sole. Prendi e Vai!
E poi se proprio devi, torna… Ho conosciuto gente che arrivata a Koh Tao per due settimane di vacanza ora ci vive da due anni. Questo è il rischio e la scommessa.

Scritto da Roberto P.