Il mercato notturno di Vientiane

I gamberi stavano scoppiettando sulla graticola. Eravamo abbastanza lontani dal fiume, quasi alla prima periferia della città, e attorno a noi i segni della grande alluvione di agosto non erano così profondi. Il Mekong ci aveva dato dentro pesante, ma dopo tutto Vientiane è sempre un po’ come un calzino rivoltato, di quelli di lana grossa, con tutti quei fronzoli che ciondolano con caloroso disordine. Erano solo più bagnati del solito.
Il chioschetto era all’angolo di una strada lungo un piccolo canale. Poco traffico, qualche moto. La casa di Phan era nello stesso stabile, una struttura a un piano, con qualche camera sparsa. Lui ne possedeva una, con un bagno in comune, ma non dormiva lì, non sempre. Per tirare su qualcosa, affittava la sua stanza ai lavoratori che passavano in città, gente comunque povera che aveva bisogno di un posto da poco per dormire. Lui intanto si appisolava al dormitorio, quando non lavorava, dalle 14 alle 23, orario continuato, nell’albergo dove lo incontrai al mio arrivo in Laos. Poi la sera una zuppa e una Beerlao, o anche due.

 La mattina studiava, quando poteva, chissà come e dove, e con che mezzi. E scoprire da dove gli venisse l’istinto di farlo, in quel casino di vita che si ritrovava, era un premio per chi entrava in quella piccola Asia ancora lenta, che sapeva quasi di Sudamerica, così lontana dalla nuova frenesia orientale, ancora ingarbugliata e soffocata da un regime stanco e vecchio, ma che non vuole mollare la presa.

Ma quell’istinto Phan lo aveva. Autodidatta su tutto, annaspava lento, e a 33 anni sognava di avere una famiglia, di lavorare per conto suo, magari di aprire una guesthouse a casa del fratello, che stava in campagna nel sud del paese. Ma in quella parte di Laos non ci va nessuno.
«Portaceli tu!»
«Con cosa, con la tua libertà?»
I gamberi erano pronti.
«Non ti interessa proprio?»
«Non sapete nulla, voi», scherzò serio, «nulla. Lui studia il linguaggio php», mi indicò il nostro cuoco neanche ventenne, «e guarda che tra un po’ ti interroga. Mi farà un sito come il tuo… sembra strano vero? In fondo posso fare quasi tutto quello che voglio».
«Allora dimmi quello che pensi».
«Sono solo stanco, e tu? Ci manca ancora un po’ per le “tue” cose, non tanto. E anche un po’ di voglia nostra, in effetti. Quei ragazzi imprigionati di cui mi dici… non so; nessuno lo sa credo, o quasi. Ma dopotutto rispetto a dieci anni fa qui è tutto un altro mondo, anche rispetto a due. Ma voi non sapete nulla… Tu mi parli male dei vietnamiti, ma qui li consideriamo dei veri fratelli…»
«Fratelli maggiori, per il tuo governo… ho capito lascio perdere».
«Dai che devo tornare», mi disse sorridendo.
Risalimmo sulla sua moto. Lui era tramortito dalla stanchezza. Era dall’alba che girava con me, e in tre quarti d’ora avrebbe iniziato a lavorare. I suoi colleghi dell’albergo sembravano intontiti, lui invece, il giorno del mio arrivo, appena scoperto che scrivevo, che in Italia stava per uscire un mio libro di narrativa di viaggio disse d’istinto: “Ah! Molto interessante! Allora ti porto in giro la mattina così scriverai anche di me”. E’ quell’istinto che non ti dà pace, ma che ti fa riposare bene anche in un dormitorio, se riesci a non sentirti escluso da quello che conta per te. Lo lasciai al distributore dietro l’angolo, vicino all’albergo. I suoi capi non dovevano sapere che stava studiando il modo di diventare una guida, che cercava un po’ di pubblicità e che in cambio gli bastava un po’ di benzina per la moto, qualche birra e un po’ di gamberi in più. Avrebbero voluto una percentuale anche su quelli. Ci saremmo visti per cena al piccolo mercato alimentare notturno, il più piacevole in cui abbia mai mangiato.
Il Mekong era tornato calmo. I chioschi alimentari lungo l’argine brulicavano di campagna come poteva accadere solo nel più grande villaggio d’Asia, con le sue semplici strade sterrate a pochi passi dal centro. Vientiane era così bella, quasi fresca. Non avevo voglia di muovermi.
I gamberi sono ancora lì, in quell’Asia sudamericana, che non chiede cibo. E Phan alla fin fine, vuole quello che voglio io, che vogliono tutti, forse: un po’ meno casino, che ancora ne abbiamo troppo in tanti, con una dose sempre più scarsa di serenità e un istinto che per fortuna ancora ti morde.

www.simonemariotti.com

Articolo pubblicato il 3 dicembre 2008 su La Voce di Romagna in prima pagina